Sottosopra

PicsArt_1421682952530_1Apro la porta. All’improvviso. E mi trovo davanti uno spettacolo agghiacciante. È un disastro qui, una miriade di oggetti che hanno smarrito il significato, non servono più a nulla. E ognuno è in un posto che non gli compete, ognuno in una posizione assurda, in bilico, o a terra, o esploso dappertutto. Non c’è nulla di sopravvissuto in questo tsunami inaspettato. Nulla è più quello che era prima. Sembra modificato fin dentro le nervature del proprio essere. Come se la vita di fuori avesse il lusso di intaccare l’equilibrio di dentro. E forse è questo. Forse funziona esattamente in questo modo. Questo violento terremoto ha cambiato la natura delle cose.
Mi chiedo come possa all’improvviso sembrarmi tutto così estraneo, così poco appagante, così confuso. E mi chiuderei questa porta alle spalle, correrei via, se potessi, se fosse un’opzione reale, concreta, realizzabile. Se fosse davvero terapia. Ma non posso. Questa stanza è la mia vita, e questo disordine è dentro al mio petto, dentro al mio stomaco, dentro, insomma.
Me ne andrei volentieri, ignorando la muffa sulle pareti e sulle tende, la polvere, lo sporco, la ruggine, il calcare, i rifiuti. Me ne andrei. Ora. E fingerei di esser pulito, di avere dentro una di quelle stanze degli alberghi a 5stelle, quelle che hanno le tende di raso, il letto enorme a baldacchino, una vasca in cui si sta bene persino in due e un angolo con qualche attrezzo per fare un poco di palestra. Ecco, fingerei di stare così, come sta chi non può chiedere nulla, perché già ha tutto a portata di mano, di cuore, di sguardo. Ma chi può? Chi può davvero fare finta di non avere tutto sottosopra?
Qualcuno mi dice che molte persone lo fanno. Che dovrei ignorare, rimandare, sottovalutare, viverci sopra.
Ti ritrovi dentro una stanza come questa? Vattene! Chiudila a chiave, spranga la porta, e aprine altre! La vita è questo! Mutamento, continua evoluzione!
Potrebbe convincermi una visione di questo tipo. Forse funzionerebbe. Forse è davvero più semplice murare le stanze che siamo stati – e non siamo più – e aprirne altre. Sempre arredate di nuovo, sempre fresche, sempre appena pulite. Potrei provare. Ciao, e riparto altrove. Addio caro, e butto la chiave. Ti saluto, e corro via.
Ma io non sono così. Non è una colpa, è un modo di essere. E questa stanza qui, o quel che resta di essa, sono io. Come faccio a chiudermi dentro? E chi sarei altrove? Certo, vivrei. Mica si muore. Ma dovrei ricominciare daccapo, resettarmi, mentre io credo molto nella novità rappresentata dalla continuità. Un rinnovarsi continuo in un incedere più grande e inarrestabile. Ci ho messo così tanto a diventare così!
Non voglio chiudere tutto. Io voglio restaurarmi. Voglio vivere qui. Non è facile, lo so. Ma snaturare se stessi lo è? Fare finta di essere altro. Azzerarsi. Sentirsi sconvolti per qualcosa che non ci sconvolge, piangere lacrime asciutte, confondere le emozioni vere con formicolii delle dita, è più facile? Forse. Forse lo è per chi ci riesce. Ma il punto non è solo riuscire a mentirsi per un periodo, è diventare ciò che ci si mente di essere. Ci si può mentire per sempre?
Comunque ho deciso, voglio vivere qui. Perché qui sono diventato uomo. Altrove sarei altro: un albero senza radici, appoggiato sul cemento. Voglio convivere con tutti questi oggetti fuoriposto, con le crepe sui muri, con le cose che contengo, magari inutili ma così importanti per me. Così belle. Ognuna ha un nome, ad ognuna collego un ricordo. Non importa se dolce o amaro. È mio. Non sarebbe lo stesso se non ci fosse. E non importa se rido, o piango, o sospiro, a ognuna di queste cose ho concesso una parte di me. E io sono tutto questo. Devo darmi da fare.
Ora, sono ancora sulla soglia. Entrare è la parte più difficile. Faccio un passo. Inciampo in un barattolo arrugginito. Era una lattina di CocaCola, e mio padre la fece diventare un portapenne. Io cominciai a riporle lì le penne con cui scrivevo le mie storie. Le attappavo, le infilavo, e scalpitavano come cuccioli di leone. L’inchiostro diminuiva senza che le usassi, scrivevano da sole, di notte, quando sognavo le parole.
Raccolgo questo barattolo. E lo guardo, è sfinito. Sbiadito. Ammaccato.
Prendo i detersivi, le pezze, tiro un sospiro. Non c’è qualcos’altro da cui sarebbe migliore cominciare.

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