Il mare, Cutro e la vergogna

Si dice che il mare restituisca sempre tutto.

Possono passare secondi, minuti o decine di migliaia di anni, certo. Eppure, si dice che, prima o poi, dal mare riaffiori ogni cosa che il mare ha trattenuto, di cui si è impadronito, di cui ha fatto incetta o che ha preservato.

Quello che sta tornando a galla, dopo la tragedia a largo delle coste di Cutro è innominabile. Dopo i corpi, 68 fino ad ora, tra cui molte donne e bambini, sistemati in un palazzetto comunale in una macabra sfilata di bare, stanno riaffiorando gli oggetti, i vestiti, le scarpe, perduti dalle vittime durante la tempesta.

Gli oggetti parlano. Contengono l’intenzione di poterli utilizzare, contengono la speranza, la fiducia, l’attesa, il miraggio, il sogno.

Sono promesse fatte a sé stessi, impegni oltre la disperazione, responsabilità concrete oltre il coraggio che conduce su una barca, coi proprio figli, coi propri cari, verso un futuro incerto, improbabile, pericoloso.

Quegli oggetti sono desideri.

Talmente semplici da sembrarci inutili.

Talmente umani da azzerare congetture.

Tolgono fiato all’anima.

Confermano senza equivoci che, chi parte, fugge, non va in gita.

E spesso non ha piani di riserva.

Piantedosi, vergognati.

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