C’era mio padre, per dirne una. Ed era il secolo scorso.
Ero maggiorenne da pochi giorni, avevo i capelli con la riga al centro, senza un filo di gel, e un viso da bambino che vuole fingersi uomo, come se ci fosse fretta, come se si potesse diventare altro. Avevo gli occhi accesi, che strabordavano di cose, esondavano. E in quella dolcezza di sguardo e di modi, mi ricordo felice. Sereno. Incompleto, forse. Ma giovane, giovane da fare spavento. Giovane nelle nervature dell’essere. Giovane nel modo di prendere le cose, colorarle, e renderle migliori. Uniche.
Non avevo ancora preso la patente. Pesavo probabilmente la metà di adesso. Non avevo un cellulare, non avevo una connessione a internet che mi affollasse la vita con mille contatti e mille richieste continue. Sembra pazzesco. Ed era ieri.
Ho immagini nitide in testa. La mia cameretta era il museo delle mie passioni, libri, poster, fumetti, computer. Il mio mangianastri, sempre acceso, era la colonna sonora della vita. Le mie scarpe da ginnastica fuori alla finestra. Il mio portapenne ricavato da una lattina di coca cola. I primi racconti scritti in preda a un furore quasi mistico. I giochi da tavola. I gelati al pomeriggio, le cioccolate calde, i compiti in classe del giorno dopo, il giornalino d’istituto, i primi amori, le prime risate, l’autobus strapieno, le promesse, i prati primaverili e le coperte a far da tovaglia, gli amici, la bicicletta, il parco e i giubbotti a far da palo, il lago e i pedalò, la parrocchia, gli allenamenti di calcio, le prime vacanze con gli amici. E quella sensazione di libertà che confondi col futuro.
Non ero ancora io – o forse ne ero il germoglio. Avevo, però, in testa ogni sogno possibile, in bocca fiumi di silenzi e i polpastrelli avidi di toccare tutto, di assaporarne la forma, impararla. Ero pulito. Ero ancora profondamente pulito.
Intorno avvertivo tanta confusione, quella dell’ultimo anno di liceo che mi aspettava, quella confusione educata che ci tiene per mano, ed è la bella copia della vita. Ma noi, in quel momento, non possiamo saperlo. Quell’estate, era il 1999, mi dissero: Andiamo a Praga. E io non potei far altro che essere felice, sebbene a Roma lasciassi il primo amore, e quell’attesa gioiosa e insaziabile di voler passare insieme ogni momento possibile. Ma dieci giorni volano, dai. Io ancora non lo sapevo che vola via tutto quanto. Avevano ragione.
Roma era un universo in espansione, mi sfuggiva dagli occhi. Non la conoscevo e avrei dato tutto per possederla come una bella donna. Mi bastava. Roma all’epoca mi bastava. Io avevo fatto l’amore. E non mi sembrava esistesse altro di altrettanto importante. Un altro luogo, un’altra vita. Non era sesso, non era niente. Era solo amore, un amore piccolo e ingenuo, fatto di milioni di parole e di desideri. A pensarci oggi, sorrido. Penso a quanto cambino le priorità, le percezioni e i desideri nel tempo. A quanto sia il tempo il vero protagonista, non tanto ciò che ci infili dentro. E a quanto certi pensieri, certi palpiti di gioventù, siano davvero figli di un momento, figli di un’incidenza di cose irripetibile che vale solo lì, e nemmeno a lungo.
Era agosto. Avevo il cuore come bagaglio a mano. Occhi di spugna. Partimmo in treno, una mattina. Un viaggio vero, un viaggio. Facemmo tappa a Venezia, e poi Praga. Eravamo tutti insieme, in una di quelle vacanze di famiglia che a un certo punto smetti di fare. E poi non è che ci sia un motivo. Smetti. Ma non sapevo che fosse quella l’ultima volta che avrei vissuto una cosa del genere. Non si sa mai prima. E quindi l’ho vissuta senza alcun preconcetto o pregiudizio. L’ho vissuta per la prima volta.
Quello a Praga avrebbe potuto essere un viaggio come tanti altri prima. Invece ha spaccato a metà la mia vita. Da una parte l’infanzia e l’adolescenza, dall’altra la maturità. Al ritorno, più o meno velocemente, si è stravolto tutto. Ho iniziato a diventare uomo lì, tra Stare Mesto e Malà Strana, senza saperlo. Con la mia famiglia non sarei partito più. Di lì a poco avrebbe persino cambiato forma – la mia famiglia, la mia vita.
Oggi, a ripensarci, a vedere queste foto che sfoglio come promemoria, provo un paio di sensazioni precise. La prima riguarda i luoghi e il modo in cui li riempiamo di ricordi. E mi chiedo: come si torna dove abbiamo vissuto quelle esperienze fondanti che ci hanno reso proprio così come siamo e non altro? Basta tornarci fisicamente? E ci si torna mai davvero? O è solo un approccio impaurito e superficiale, un presente che si ostina nel ricordo? Io mi sento un uomo che dà da mangiare a un leone, adesso, che allunga la mano pronto a tirarla via all’istante. Non so perché.
La seconda sensazione non contiene domande. È semplice e piccola e mi attraversa di netto, come una lastra. In quel 1999, a Praga, con la mia famiglia intorno e quei pensieri addosso, tutto doveva ancora accadere davvero. Come se quel che era capitato prima, rispetto al dopo, avesse una portata esistenziale minore, quasi ridicola.
Magari tra vent’anni, pensando ai giorni che mi attendono, penserò lo stesso.
Me lo auguro.