Chiudere a chiave una casa che brucia

casabrucia_postÈ lo stesso discorso della barca, finché va, si dice che dovremmo lasciarla andare.
Le scuole di pensiero si sviluppano più avanti. È sempre così, il pensiero nasce coi problemi. Quando becchi una tempesta, una secca, uno scoglio a pelo d’acqua, e ti ribalti, o cominci lentamente ad affondare. Quando lo scafo si apre e non c’è verso di metterci una toppa, o l’albero maestro si spezza, o le vele si lacerano. Quando ti perdi. Quando qualcosa, dentro – il tuo equipaggio – si ammutina.
Quando imbarchi acqua, acqua a secchiate, e non riesci più a rigettarla in mare.
E cominci a bere, e provi a nuotare, sai nuotare, per carità, figuriamoci se non so nuotare io, ma in quel trambusto di onde, in quel dolore di scogli, nemmeno ti riesce così bene. Galleggi. Siamo tutti in gamba, siamo tutti vivi, riusciti, completi, fino a quando qualcuno non ci chiede conto della nostra vita. A quel punto, spesso, balbettiamo. Cerchiamo corridoi paralleli, finestre aperte, cerchiamo un filo che tenga insieme, anche sommariamente, tutte le azioni che hanno definito il nostro esistente.
Ecco, in quel momento, passatemi la sciocchezza, proprio in quel momento, ci accorgiamo che la barca andava, ma non è detto che vada e che andrà, non è scontato nulla. Neppure il mare, neppure il vento.
Insomma, finché la barca va sei un vero idiota se non la lasci andare. Approfittane! Goditela! Funziona pressappoco in questo modo per tutto quanto. Ci hanno insegnato così. Quando è naturale, qualcosa accade da solo, senza forzature, senza troppi ripensamenti. E noi ci solleviamo dalla bega di comprenderlo, è talmente fluido che non ha striduli, attriti, È così bello, vedi? È così dolce.
Questa è una immane idiozia. Non è affatto così. La barca non va da sola, mai. Confondiamo aliti di vento con investiture, onde con coincidenze favorevoli, destinazioni con destini. Confondiamo persino la felicità, talvolta, con una soddisfazione estemporanea, con un breve appagamento, con un’emozione spicciola che increspa il mare piatto della nostra quotidianità. Qual è il punto, quindi? Ci hanno insegnato a preoccuparci delle cose che non vanno, non di quelle che vanno. E qui nasce l’equivoco immenso che spesso è radice di malesseri che non comprendiamo. La barca non va da sola. Mai! Ci dobbiamo preoccupare di lei in ogni momento, anche finché va, anche col vento in poppa, col mare a tavola, col sole brillante. Non dobbiamo lasciarla andare. La barca ci reclama sempre. Ci chiede di sceglierci, di scegliere ciò che vogliamo essere, diventare, realizzare.
Solo attraverso la comprensione delle nostre felicità impariamo a conoscerci e a gestirci nelle penombre della nostra vita. Organizzare la felicità, capirla, impararla, per combattere la bassa marea e i naufragi.
Questo è. Ma quello di cui è più curioso parlare riguarda le reazioni di chi ha lasciato che la “barca andasse finché andava”, quando si trova di fronte a qualcosa – un tornado, una secca, una balena – che in qualche modo osta quell’inerzia considerata vita.
In sostanza può succedere di tutto ma è possibile, secondo me, racchiudere queste reazioni in tre famiglie. La prima è di totale incomprensione, tipo “ma perché sta capitando a me?”, come se si potesse mai rispondere a una domanda simile. E la conseguenza è sempre, o quasi, sigillarsi dentro qualcos’altro – una fede, una passione, una persona – aspettando che passi il dolore. Almeno il dolore più pungente.
La seconda è sempre una reazione di sorpresa, ma è accompagnata dal desiderio di capire veramente cosa sta succedendo e farne tesoro. Abitare la tempesta, diventarne parte. E cercare di uscirne. Magari travolto, magari in fin di vita, ma con gli occhi accesi, sotto le palpebre. Spesso, in questi casi, si decide di iniziare una terapia laddove, fino a qualche tempo prima, si riteneva sciocco, oppure inutile. O magari si cominciano a vedere i propri errori, e a rivalutare le persone che ce li suggerivano, che ci amavano, che ci chiedevano di mettere a fuoco anche il dentro. Non solo la cornice.
E poi c’è la terza reazione, che è quella per la quale provo un sentimento di tenerezza (che con gli anni è diventato sempre più simile alla pietà). Sono quelle persone che, quando la barca smette di andare, fingono che continui ad andare. A gonfie vele magari. Quelli che qualunque cosa di brutto o di difficilmente accettabile accada, non sta accadendo. I paladini dell’indifferenza. Le persone che non solo non hanno nessun riguardo rispetto all’andare finché si va, ma non si preoccupano nemmeno di adesso, che non si va più. Miopi, talvolta ciechi. Sono palline impazzite che stanno bene perché sono lontane dalla bocca del flipper, e si sentono al sicuro perché si convincono che quel flipper, in ultimo, una bocca non ce l’abbia. E quando ci finiscono dentro continuano a muoversi nell’illusione che si possa tornare in gioco così, senza sforzi, per puro caso. Vivono quello che capita, come capita. Credo di odiarli. Non di un odio cattivo, ci mancherebbe. Odio quella mancanza totale di dubbio. Quel non chiedersi nemmeno Come può essere tutto, sempre, così semplice? Ma loro sono così, sono quelli che chiudono a chiave una casa che brucia. E se ne vanno, convinti che gli incendi si spengano da soli, esauriscano, o che quella porticina inchiavardata possa tutelare davvero quel che c’è a valle.
Li odio perché io invece resto dentro, mi brucio, mi ustiono, perdo, magari, ma non me ne vado mai. Cerco di spegnere il dolore, fino all’ultimo. Di capirlo. Lancio gocce indifese su fiamme di due metri. Le vedo sparire nel fuoco e mi piace pensare che facciano la loro parte, piccolissima, per fermare  quella devastazione.
Ecco, faccio la mia parte, sempre. Anche quando non brucia nulla. E sembra un pregio, ma passo molto tempo a chiedermi se lo è veramente.
Per questo, forse, un po’ li invidio.

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