Solo andata

Solo andata.

Questa strada la facevamo insieme da bambini, ogni mattina, per andare a scuola. Litigavamo sempre per sederci davanti. Tu mi tiravi i capelli, dicevi: sono più grande, e i più grandi decidono.

Oggi abbiamo intorno ai trent’anni, tu poco più, io poco meno, e facciamo le stesse strade per andare da altre parti. Forse è questo soprattutto la vita: imparare a percorrere diversamente le strade che abbiamo già percorso. Non andiamo più a scuola, tu guidi, io ti accompagno. Dentro questa macchina siamo io e te. E basta così.

Dietro, nel portabagagli, un paio di valigie che dovrebbero contenerti. Un paio di valigie che, con approssimazione, sono lo spazio di casa che ti porti altrove.

Mi dici Prendiilportafogli, lo dici così, tutto attaccato, in un unico sospiro. Temi di aver scordato il documento, di dover restare. Invece è dentro, ti dico È qui. Tu sorridi, e da dove sono io il tuo sorriso è bellissimo, selvatico. Rimetto il portafogli nello zaino, mi cade l’occhio sul biglietto. Leggo: viaggio di andata, e via via tutte le informazioni sul volo e sui bagagli. Sotto, bianco.

Così penso che io un biglietto di sola andata non l’ho fatto mai. E mi sembra ci sia una differenza sostanziale tra te che provi ad andare e io che insisto a restare. E subito dopo mi sembra non ce ne sia nessuna. In fondo cerchiamo entrambi la stessa cosa: il posto migliore per vivere.
Ora ci sarebbe da dire che il posto non fa la felicità, che noi siamo gli stessi ovunque. Ma è retorica, e nemmeno tanto vera. Quindi non lo dico. Dico però: Farà freddo stasera, quando arrivi.

Ti volti, a volte dimentico il tuo viso. Eppure viviamo nella stessa casa da decenni. Annuisci. Indichi la felpa sul sedile posteriore. Poi, quando inizio a sperare che potresti averlo dimenticato, svolti per l’aeroporto. E questa strada comincio a odiarla. Abbiamo costeggiato l’aeroporto per anni, e adesso ci finiamo dentro. Non succede mai qualcosa di dolce negli aeroporti, sono addii e arrivederci, lacrime e sorrisi, mani e sguardi. Tutto movimento. Puro movimento.

Cosi parcheggi. Non sento che stai partendo. Non mi sembra. È come se fossimo venuti fino a qui a prendere un caffè per poi tornarcene a casa. Però tra qualche minuto sparirai dietro i metal detector e vederci di nuovo diventerà occasione, accordo, eccezione. Sarà impossibile sapere a che ora rientri la sera, o sentirti ridere davanti a un film da dietro la porta, o chiamarti per sapere se pranzi a casa e ti va di lasciarmi un piatto di pasta, per quando torno.

Una parte di me si augura che ti troverai malissimo, che correrai a comperare il biglietto di ritorno e ci vedremo presto. Un’altra si rende conto che questa tua destinazione è solo una scelta. E le scelte sono infinite. Perché più che voglia di andartene, la tua è esigenza di non restare.

Scarichi le valigie. Mi fa sorridere e deprimere l’idea che oggi, tu sei un emigrante, al pari di altre milioni di persone. Un emigrante dall’Italia, nel 2014. Vorrei avere pronte quelle stronzate che dice chi ha poco da dire, o forse molto senza avere il coraggio di dirlo. Invece il mio cuore è una cesta di frutta, cerco la più bella per darla a te, ma passa il momento e entriamo nelle porte a vetri. Forse sono di vetro perché serve indugiare. È parte del gioco. Ti volti, vedi cosa lasci, e magari decidi di non lasciarlo più. Ma guarda che pensiero.

Quello che più mi turba, in questa specie di addio, è che non dirai più Torno a casa quando prenderai un biglietto per venirci a trovare. Dirai Torno a Roma, dirai Torno a trovarvi, e pian piano violenterai pure il verbo. Dirai Vengo in Italia, Vengo per un matrimonio, Vengo per un corso.

Cambia il luogo che chiamiamo casa. E cambiano i motivi per sentirsi a casa.

Ora dovrei piangere. Dovrei dirti: Resta. Dovrei dirti: Sei sicuro? oppure Quando torni? Dovrei preoccuparmi se hai scordato qualcosa o se hai qualcuno, lì, ad aspettarti. In fondo la sera è buia dappertutto. Non faccio nulla. Mi sembra uno di quei momenti in cui ha senso solo il silenzio.
Tu mi saluti, introverso come sei, e mi dai un bacio su entrambe le guance. Come se ci vedessimo domani. E forse è così. Il tempo lontano dalle persone che ami rattrappisce ogni volta che le incontri di nuovo, e sembra non essere passato. Mi piace molto pensare che ci vedremo domani.

Aspetto di non vederti più, svolti dietro il corridoio che porta al gate.

Salgo in macchina, mi sommerge una solitudine delicata. Sento un suono, ma so che non c’è.

Sento la campanella della scuola, e noi che insieme torniamo a casa.

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