Di te so per certo soltanto che ti chiami Anna. So che disegni labirinti dappertutto, sui fogli di carta, sulle riviste, sugli scontrini, sui fazzoletti per il naso. Dici di disegnare labirinti come antidoto alla vita. E la cosa mi incuriosisce molto. So che non sorridi mai per circostanza, non lo sai fare. So che ti diverte molto parlare della gente, hai una visione tutta tua. Credi che ognuno sappia sempre cosa vuole (anche se non se lo sa dire, anche se non lo ha capito). Credi che ci sia un livello di consapevolezza inconscia a governare in qualche modo il nostro agire, anche contro la nostra intenzione.
Poi cosa so?
So che ti incontro dappertutto. Mentre aspetto il resto della spesa, con le buste della frutta in mano. Mentre sono fermo al passaggio a livello e rubo i visi dei viaggiatori dai finestrini illuminati. Mi sembri lì, su quelle espressioni ipotetiche che non metto a fuoco, che volano via. E compari mentre guardo il soffitto, in camera da letto, pochi istanti prima di addormentarmi, e confondo quel che penso da quel che immagino soltanto. E dal balcone, mentre le persone del mondo scorrono fluide, ognuna verso qualcosa che gli sembra la propria vita, eccoti laggiù, ferma, che mi osservi, ai bordi del traffico, con lo sguardo di chi si sta preoccupando delle troppe cose tralasciate.
Mi sembri ovunque. E non so spiegare perché. In fondo non c’è un vero motivo, Anna.
Ti vedo nei vicoli illuminati di Roma, in centro: cammini col tuo passo controllato e imprendibile. Ti vedo riflessa nelle vetrine dei negozi, seduta nei miei stessi ristoranti, sempre distratta da un dettaglio che io non avevo notato, una sciocchezza, un frammento disperso, talvolta insignificante.
Sei sempre lì, e sempre curiosamente quasi immobile, attendi. Non so cosa, non lo so nemmeno io, eppure attendi, con una grazia e un rispetto che mi lasciano sbalordito. La scrittura è la più compiuta forma di attesa che io abbia conosciuto nella mia vita.
E tu, Anna, aspetti di essere raccontata con una bellezza che ignoravo, con una pacatezza fiera. Non hai fretta, non hai impeto, non hai altezzosità. Sai che verrà il tuo momento, e che potrà essere soltanto quello il tuo momento, non prima, non dopo. Sei il personaggio principale del mio prossimo romanzo (che non ha titolo, che non trova pace, né tempo utile, né sedimenta) e ti sistemi i capelli dietro l’orecchio con la mano a conca, ti accarezzi il fianco, come a spolverarlo, come a rimuovere qualcosa. Guardi sempre altrove, mai me, ma io lo so che mi appartieni, che mi stai cercando. Lo so che hai voglia di esistere.
Eppure attendi, sai aspettare. E ogni giorno, Anna, in questa fertile attesa di qualcosa che non so (una scintilla, un’occasione, una minuzia mancante?), mi si rivela un brandello ulteriore di quel che sarai. In una rivelazione progressiva e inarrestabile.
Non so come si possa spiegare questo a qualcuno, ma sei viva. Sei accanto a me. Hai qualcosa di tutte le donne che ho amato. Probabilmente la parte migliore. O quella più folle. O quella più insopportabile.
Nelle prime 30-35 pagine hai già fatto molto, hai già dato prova di quel che sai fare, hai già sorriso, hai già sbagliato, hai già corso a perdifiato. E non so dove andremo a finire, alla fine di tutto. Dove ci porterà questa storia, cosa ricorderemo.
Tu lo sai più di me. A quello si deve la tua serenità quasi imperturbabile. Sai cosa devi fare, sai come farlo, e sai che io, in fondo, sono soltanto la tua voce, le tue dita, il mezzo attraverso cui la tua storia diventerà di tutti. Sai bene, Anna, che la follia e l’amore si assomigliano così tanto, certe volte, che non dobbiamo prenderci la pena di spiegarli, perché non si può, perché non si deve.
E allora continua ad aspettare, Anna, magari impazziremo insieme.