“Non avevamo più spazio per seppellire i morti”.
Fai col dito una mezzaluna sulla tua testa, indichi i cimiteri, ovunque. Intorno a noi Sarajevo. Un sole estivo. Un cielo bellissimo. Il tuo viso è indurito, la pelle coriacea, marmorea, fissa. Sembra una maschera, incapace di assumere espressioni. Eppure, all’improvviso, sorridi. Il tuo sorriso mi sfianca, mi infastidisce. Sono arrivato da qualche ora, non respiro. Non capisco come si possa sorridere. Non sono avvezzo ai palazzi abbandonati, amputati, o implosi, o crivellati di buchi. Non sono avvezzo a questa luce, che scende fino a un certo punto, taglia il viso, poi si eclissa dietro il monte Trebevic o l’Igman, dove gli impianti sciistici delle Olimpiadi dell’84 diventarono trincee, da cui i cecchini serbi martoriarono la città per quasi quattro anni.
I tuoi occhi sono illuminati. Perle marroni, vivide. Hai cinquant’anni oggi, capelli ingrigiti, zigomi sporgenti. Ne avevi meno di trenta quando Sarajevo era bersaglio dei serbo-bosniaci che l’assediarono senza tregua, senza pietà, senza riguardi per niente e nessuno. Quando Sarajevo era ostaggio anche delle fazioni paramilitari bosniache, che avrebbero dovuto difenderla e che approfittarono di quell’assedio per arricchirsi, per sollazzarsi, per vessare i loro concittadini. Quando Sarajevo era vittima, soprattutto, dell’indifferenza di chiunque non credeva possibile che stesse accadendo quello che accadeva: Onu, governi, associazioni non governative.
Sorridi. Ripeti: “Non c’era più spazio, abbiamo cominciato a seppellirli ovunque. Nei giardini, nelle aiuole, nei campi di calcio. Erano troppi. Ma li abbiamo seppelliti tutti”.
Sarajevo è una città sdraiata tra le montagne. Adagiata come un moribondo. Arrivando da Mostar si percorre il viale dei cecchini, il lungo stradone che dall’aeroporto conduce in città. Qui, vent’anni fa, morivamo 4-5 persone al giorno solo per i tiri infami dai palazzi abbandonati. Donne, bambini, anziani, che cercavano di recuperare acqua, cibo, frutta, abbattuti come errori.
Sono accanto a te. Tu guardi avanti, io ovunque. Le ferite sono vive, sanguinano. Non c’è un solo spazio verde che non abbia al suo interno un pur piccolissimo cimitero. Le colline sono piene di croci bianche, di lapidi, di colonne. Qui la guerra è finita da più di vent’anni. Eppure la sensazione che si ha è che sia finita ieri.
Il tempo che doveva passare dov’è finito?
Ognuna delle persone che incontriamo per strada ha affrontato almeno un lutto per colpa della guerra. Dimenticare non si può. Me lo fai capire. Mi dici: “Certe cose mica passano”. Non lo dici con rabbia, non covi vendetta, non sembra, non si percepisce. Eppure hai perso quasi tutta la tua famiglia, qui, vent’anni fa. Tuo padre, per una scheggia seguita a un colpo di mortaio. Tuo fratello al fronte. Mi dici: “Certe cose mica passano”, e sorridi.
Io non trovo parole, neppure domande. Sono in silenzio da molto tempo ormai. Mi indichi un angolo di strada, mi dici: “Quel ponte era la prima linea. Quanta gente è morta lì…”
Riprendiamo a camminare. Non ci si abitua ai cimiteri che spuntano tra i palazzi, in lontananza, come promemoria. E sorprendono ogni volta. Non ci si abitua alle lapidi, alle date delle morti, che si assomigliano tutte. Quel bianco candido, in mezzo ai colori della città, aggredisce gli occhi. Arriviamo alla Baščaršija, il quartiere turco, il centro storico di Sarajevo. In un’unica via ci sono una chiesa cattolica, una ortodossa, una moschea e una sinagoga.
Si respira un’aria che non avevo mai respirato altrove. Superiamo un bazar, passeggiamo per le viette lastricate. Siamo lì e in qualsiasi altro posto del mondo dove si parla di integrazione, dove si discute di diversità, dove si lotta per un razzismo che sembra inestirpabile.
“Vuoi un caffè?” Ci sediamo in una splendida caffetteria su strada. Ordini due caffè bosniaci. La donna arriva subito con una Jezvah di rame lucente. In un locale di fronte a noi, ragazzi di tutte le religioni bevono nelle stesse quattro mura una Sarajevosko ghiacciata, mangiano cevapi o pljeskavica, ridono dello stesso sorriso che hai tu.
Arrivano i caffè. “Devi mordere questo zuccherino, tenerlo sotto la lingua, e poi sorseggiare lentamente”.
Così faccio. Come si torna a ridere così? Questo vorrei chiederti, ma non so dirlo. Questa morte, così vicina alla vita, mi fa paura. Mi sembra di confondere tutto, di non capirci più. Noi i morti li chiudiamo a chiave nei camposanti, li distinguiamo nettamente. Qui te li trovi accanto alla fermata del bus, quando nelle ore meno afose vai a correre un po’, quando esci con quella ragazza che hai corteggiato così a lungo. Qui i morti vivono ancora. Non saprei dirlo meglio. E tu dici qualcosa che lascia trasparire proprio questo.
Dici: “Tutti questi cimiteri non sono cimiteri, sono mausolei.”
Non danno fastidio. Vanno ricordati con riverenza. L’odio degli uomini ha fatto accadere tutto questo, va mostrato a tutti per non farlo accadere più. Sarajevo è viva. Sono vivi i colori dei chador delle donne musulmane, le voci dei mercanti di souvenir, la Milijacka che continua a scorrere, a lavare via, a portare lontano. Sono vivi gli odori mediorientali, i centri culturali, la splendida Biblioteca Nazionale restaurata dopo l’incendio appiccato dai serbo-bosniaci durante l’assedio. E i sorrisi, tutti, il tuo, sono superstiti.
C’è un fermento vitale che scorre sotto la pelle di una città che vuole tornare a splendere.
Qui è tutto vivo, accanto ai quasi 12 mila morti, perlopiù civili, del più lungo assedio della storia moderna. E mi sembra questo, solo questo, quel che valga la pena riportare indietro da questa esperienza: la vita, che sa sorridere, tra le macerie.