Il giorno è domani. È arrivato. Ci siamo.
Da stamattina ho mal di testa, ho il mal di emozione. Non mi capita mai, non mi capitava più. Siamo parte di un ritmo così forsennato da aver perduto la capacità di sostare davanti a qualcosa. Di aspettarlo, anche a vuoto, anche a lungo, anche per sempre. Abbiamo perduto, almeno io, il dono della contemplazione.
Tutto il tempo che non genera qualcosa di concreto è tempo perso. Ogni attimo improduttivo è bruciato, è vuoto di senso, è inutile. Corriamo da una parte all’altra, sempre. Senza soste. Senza fiato. Quando possiamo, tiriamo le somme di quel che sembra importante: il denaro, i metri quadri, le cilindrate, i luoghi di vacanza.
Ci raccontiamo le vite una foto alla volta, un breve video alla volta, un post alla volta. Senza che nessuno ce l’abbia chiesto. Senza che nessuno probabilmente guardi niente, legga niente, sia interessato a niente di tutto questo. Continuiamo a raccontarci, senza che nessuno ci colga, ci segua con trasporto, ci ammiri, ci stimoli a esistere in un modo un po’ più bello, un po’ più sano, più empatico, più umano.
Siamo storie. E lo eravamo anche prima, per carità. Ma la nostra priorità non era raccontarci, era vivere qualcosa degno di essere raccontato. Un’emozione, un fremito, una memorabile gioia.
Oggi siamo storie in divenire che si raccontano mentre avvengono, con una fretta palese e distratta, che, per questo vizio sincronico, spesso dimenticano di accadere, di apprezzare, di afferrare, di accogliere. E cosa ci resta? E cosa perdiamo? Cosa perdiamo?
Ci sono finito anch’io, lo ammetto. Non ero così, mi piaceva contare le stelle, baciare le labbra, sfiorare le dita. Mi piaceva pregare qualche Dio, in mezzo a un bosco. Mi piaceva il silenzio quando riusciva, come solo lui sa fare, a dire quel che nient’altro sa dire. E aspettavo con curiosità le parole, come amici di ritorno da un bel viaggio. Aspettavo immobile. Mi lasciavo attraversare dalle cose. Sembrava che passassero indenni dentro me, invece quel che mi faceva bene, che mi serviva, che mi faceva sopravvivere, lo trattenevo sempre. Sapevo come trattenerlo.
Oggi no. Come si fa? L’ho disimparato. Corro ovunque. E mi sembra che poco abbia la dignità di stupirmi. Che sciocchezza, vero? Eppure mi fluisce tutto addosso, e appena mi sfiora è già tardi, devo andare, ho da fare, ho impegni io, mica posso stare qui ad aspettare un tramonto, una stella cadente, un amico ritardatario…
…e passa tutto quanto. Senza che io lo abbia vissuto.
Dicono che la vita faccia questo, che sia un vento violentissimo, che travolge tutto quanto, lo sposta, lo confonde, lo disperde. Che non esistono antidoti, che non esista modo di preservarsi da questo scempio emotivo, da questo inaridimento spicciolo. Dicono che sia invincibile. Dicono che sia padrona. Che tutto passa prima di accadere. Io non lo credo, so che non è così. E sento di poter fare molto. Sento di poter fare tutto quello che non faccio. Nulla spazza via quel che tieni dentro.
Mi salva la scrittura talvolta, tipo ora, quando ha la pretesa di essere esclusivo contenuto di un tempo definito, nel quale è sovrana assoluta, è divinità, è padrona. E mi costringe a fermarmi in quel modo splendido, totale, con cui da bambino davanti alla radio aspettavo ore ed ore la mia canzone preferita, per registrarla su una cassetta, per risentirla quando ne avevo bisogno.
Sapevo aspettare. Ero un maestro dell’attesa. Avrei saputo insegnarla.
Domani ho un appuntamento. Sono atteso da una dama sfuggente. Tornare ad aspettare, reimparare l’attesa, è la cura per molto di ciò che ci lacera, per l’ansia che ci dilania. Per questo ho cercato di farlo in silenzio, di ricostruirmi attimo dopo attimo.
Ora il momento è quasi giunto e in questa vigilia ho compreso una cosa fondamentale. Che a farmi male era la nostalgia di momenti come questo, in cui tutto deve accadere (e accadrà) ma non sappiamo come.
Oggi avverto, di nuovo, quell’incanto inespresso e imprevedibile che ho atteso e di cui ho sentito così a lungo la mancanza.