Mi abitava un demone. Non so spiegarlo in modo più efficace.
Era un animale famelico che divorava ogni cosa che creavo – che rincorrevo, che agognavo, – un istante dopo averla raggiunta, afferrata. Ogni traguardo durava appena il tempo di toccarlo.
Lui, aspettava, con pazienza lodevole e selvaggia. Io mi laceravo tra mille sforzi, per far tornare i conti della mia vita, per ascoltare le passioni senza dimenticare la realtà. Sacrificavo sonno, amore, affetti, famiglia. Ero una trottola in perenne evoluzione su se stessa, convinta che fermarsi avrebbe significato fallire, cadere, deludere. Raccoglievo obiettivi dimenticando di desiderarli, dimenticando quel frattempo che separa l’obiettivo – quando è laggiù e sembra lontanissimo – dal suo raggiungimento – quando è acquisito e diventa parte di noi. La parte in mezzo, insomma, nella quale passiamo la sezione più considerevole della nostra esistenza e che troppo spesso, e malamente, percepiamo come preparazione a qualcosa che avverrà e nobiliterà tutto il resto. Io ero così: attendevo di vivere. Ho atteso per anni. E l’assurdità è che sembrava vivessi tutto, facessi tutto, e bene, e perfettamente. E invece no. Invece vivevo col groppo in gola, a mille all’ora. Mai presente a me stesso, mai domo, mai veramente cauto, calmo, quieto.
Toccavo qualcosa, ed era già vecchio. Tagliavo un traguardo, e avevo l’ansia per il successivo. Non esisteva gioia. Non esisteva soddisfazione. Esisteva solo un perenne poi che mi assillava, come se non appartenessi mai al presente, mai, in nessun caso, per nessun motivo.
Solo porte aperte davanti, mai stanze visitate con cura.
Io non conoscevo l’amore. Non conoscevo la riconoscenza. Non conoscevo la serenità. Non arrivavo mai veramente. Non esisteva riposo. Non esisteva quiete. Godimento. Percezione. E ogni volta, sempre sempre, tagliavo traguardi senza festeggiare. Non so come diamine ci si vada a finire in situazioni così, se per colpa di lutti, o di mancate partenze, o di perduti stupori, o magari delusioni inspiegabili. So che è davvero difficile salvarsi, e so che non ci si salva mai da soli.
Io devo molto a tante persone. Alcune consapevoli, altre meno. Mi hanno definito. Nel senso molto più umile di “dato un confine”. Pensavo di non averne, o non saperne avere. Invece, grazie a questo, ho iniziato a vivere. Credo sia stato pochi anni fa, lentamente. Ho sentito, con un’esattezza astronomica, cosa stava in piedi e cosa franava. Ho sentito cosa teneva, e cosa cedeva. E mi sono stupito terribilmente di come tutto ciò che scricchiolava non mi apparteneva veramente. Era un accessorio ingombrante, inutile e deleterio. Erbaccia che, se non impedisse ai fiori di sbocciare, non sarebbe nemmeno un problema. E invece va recisa. Diventa condizione necessaria.
Ho iniziato ad abitare dentro quel che mi competeva, mi rendeva fertile. Non saprei dire esattamente come è accaduto tutto questo. Forse smettendo di chiedermi quando e come, e iniziando a chiedermi perché. Non lo so. So che ho avuto fretta all’improvviso.
Il tempo è infame. Sembra non passare, poi è passato.
E ho ripensato a quel frattempo (diventato non a caso titolo di queste pagine elettroniche) nel quale avevo raggiunto mille obiettivi senza goderne alcuno. Ho compreso quanto sia vita allo stesso modo, forse addirittura di più, tutto ciò che ci capita mentre ambiamo a qualcosa, mentre costruiamo, mentre soffriamo; tutto ciò che consideriamo “mentre”…
Oggi sono un’altalena. So toccare il cielo, ma resto attaccato qui. So che le mie mani sono errori, e so che conoscersi dentro e conoscersi fuori non è proprio la stessa cosa. Conosco a memoria il cimitero delle persone che ho perduto, cosa ho imparato, cosa no. Le mie idee sono le stesse, identiche, da sempre, eppure crescono. L’amore per le parole, per la poesia, per le storie è linfa della mia vita. Solo che adesso è sporco. C’è sangue, c’è sudore, c’è radice reale, cruda, non solo bocciolo. Ed è bello così.
Sto facendo una cosa che odio: un resoconto. Ma oggi compio 36 anni. Pochi? Forse. Io direi abbastanza. Abbastanza per comprendere che non è una colpa se in alcuni momenti della nostra vita non riusciamo a capirci nemmeno da soli. Se ci sembra uno scarabocchio, una serie di parole inutili, tutto quello che sappiamo e vorremmo significare.
Ci sono tempi di chiarezza e tempi di confusione, per tutti. Diverse interlinee per rendere leggibile – sempre – quel che siamo. A volte dobbiamo allargarle, senza dispiacere. Funziona così. Quando vediamo troppo caos, quando non ci capiamo più, quando non sappiamo cosa conteniamo, dobbiamo rinunciare a dire molto, a dire tutto. Dobbiamo isolare le cose significative, e dar loro spazio.
E pazienza se in una pagina entreranno meno parole, pazienza se sembreranno buttate lì, a caso.
Siamo comunque noi, nelle pagine più ingarbugliate, più difficili, più impegnative. Ci sono anche quelle, tranquilli, ci sono sempre anche nei romanzi più belli.