Esiste un luogo, a casa mia, dove raccolgo tutto quello che vorrei dire.
Non solo le parole, ma le idee, le suggestioni, le persone, le loro storie. Non saprei dirvi che forma ha, probabilmente nessuna. Non credo sia qualcosa di descrivibile. Se accenno qui alla sua esistenza, per la prima volta, non è per parlarvi di lui, è per dire altro. Quel luogo non è un contenitore, non è un magazzino, non è un rifugio. Non è un parcheggio, non un limbo, non un trampolino. Si tratta di una sorta di magma poco distinto e mai domo, da cui tirare fuori quel che mano a mano acquisti la potenzialità di una storia.
Sarebbe bello, interessante, utile, prezioso, persino magico, capire quando un’idea diventi un racconto, o un romanzo. E perché alcune non lo diventeranno mai. Voglio dire: cosa distingue l’idea che diventa una storia dall’idea che resta un’idea? Io non so rispondere. Ci penso, ci ripenso, da anni, ma non so rispondere. Credo sia impossibile spiegare cosa accade alle idee di una storia, quando potrebbero diventarla. Si risolvono.
Che poi, io non ho colpe lo giuro. Non sono io a decidere cosa precipita in questo magma e cosa emerge, cosa scompare e cosa decolla. Succede che quel che va a finirci dentro perde le sue peculiarità e assume una proprietà generica, comune a tutto ciò che lì è contenuto. Diventa un seme. Qualcosa che potrebbe. Poi attende.
Il luogo di cui vi parlo è un luogo dove le parole aspettano. Sì, aspettano. Per capire da sole se è il caso di finire in qualche romanzo, o in un racconto, o restare lì. E magari restano immobili per anni, o magari si sporcano dei significati di altre, si imbevono di desiderio, si macchiano di colpe, si confondono. Le sillabe si mescolano, si accavallano le lettere, si smarriscono le punteggiature. E quando, per qualche ragione, le vai a tirar fuori, si portano dietro una serie di umori e di implicazioni che non avevi previsto, ma che ci sono, e sono irreversibili.
Non è sempre facile, in realtà quasi mai. L’estrazione da quel magma è quel che di più assomiglia, per me, all’esercizio della scrittura. Durante questo delicato procedimento di estrazione, di rimozione delle impurità, di adattamento alle novità che le parole lasciate lì a riposare hanno acquisito, mi viene sempre da pensare alla stessa cosa: che ruolo ho io? E come scelgo, lettera dopo lettera, quelle che ritengo le migliori?
Da qualche tempo mi divora l’idea di non riuscire a dire e raccontare tutto quel che vorrei. Troppe storie, poco tempo. Non credevo che esistesse questo peso per le storie che non racconterò. Per il tempo che, in rapporto all’esigenza di parlare di tutto, mi sembra così poco. È una sorta di nostalgia al contrario, per quel che non scriverò. Dovrò imparare a conviverci in fretta, mi toglie fiato, mi mette affanno.
Comincio a credere che funzioni come con la vita: sono le scelte a nobilitarla. E non tanto per quel che nelle scelte includiamo, ma soprattutto per ciò che a causa di quelle scelte escludiamo. Insomma, è quel che scegliamo di non fare o non dire a rendere prezioso quel che facciamo e diciamo, perché ci permette di dedicare a quelle scelte del tempo bello, sano, integro.
Ogni tanto ci torno, qui. Quando mi sento solo, quando ho voglia di iniziare qualche progetto nuovo. Come oggi. E ogni volta mi stupisce la percezione di tutto questo come di un giardino sempre appena seminato, da cui aspettarsi meraviglie, da cui veder spuntare qualcosa che non sapevamo di aver coltivato. Mi sento soprattutto un osservatore clandestino di qualcosa che mi appartiene, ma mi si cela, mi sfugge, mi scappa da tutte le parti. Forse il mio ruolo è questo.
Finché poi, ogni volta, noto un fiore più dolce, diverso, dai colori unici, corrosivi: la nuova storia da raccontare.
Le parole sono semi. A loro modo esse decidono il percorso e la destinazione. Tu sei colui che riesce dolcemente a condurle verso il loro destino, senza forzarle, seguendo solamente la loro natura.
La magia è quella musica sottile e decisa che si crea tra le parole e te, loro canale di vita.
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