Mi parli accanto, sei vicina. Quasi dentro. Stai per andare. I tuoi sono avanzi di discorsi residui, le ultime volgarità.
Le parole ti rotolano fuori dalla bocca, mi sbattono contro. Alcune fanno più male, altre mi sfiorano, altre si perdono. Sono mani tese, concessioni estreme. O sono aghi, per le ultime gratuite ferite. Sei pacata, come chi ha definito tutto e deve solo renderlo noto. Hai espressioni senza sfumature, gli occhi fissi. Mi bruci.
A un certo punto, in mezzo a frasi affilate, dici: Noi non eravamo così. E quel Noi, detto nel bel mezzo di un addio, mi sembra la cavalleria in una battaglia quasi persa, un rinforzo insperato che appare all’orizzonte, un’alba. Dici: Noi eravamo altro. Ci chiami ancora insieme, in una parola sola. Ma è solo consuetudine.
Le donne vanno abbracciate. Le donne vanno baciate. Lo ripeti come un mantra. Ti ascolto. E non so cosa dire, quando e come difendermi. Le braccia non le ho più, le ho disintegrate addosso a te in questi anni, le ho consumate sul tuo corpo essenziale e completo che conosco meglio del mio. Le mie labbra, poi, sono le tue, non possono baciare altro, non sanno baciare altro.
Cerchiamo alibi alle mancanze che diamo con le mancanze che crediamo di subire.
Parli. Sembri assolvere il compito di lasciarmi con estrema familiarità. Mi chiedo se lo fai di mestiere, se tu per lavoro lasci la gente che hai amato. La lasci dopo un po’, quando le cose inevitabilmente smettono di luccicare soltanto e iniziano a essere preziose. Parli, parli. Io smetto di ascoltarti. Lo so, non è così che si fa quando si esiste ancora, ma ho iniziato a perderti e voglio fare in fretta, voglio farlo adesso. Quel che dici non importa più, sono insulti urlati a una tomba. Io penso già a cosa sarò dopo l’ultima parola, tra poco, quando questa conversazione diventerà silenzio invernale, e io dovrò cercare di tenermi tutte le parti di me che vorranno venire via con te, come figli nostri. Mi conterò gli organi sperando ci siano tutti, metterò toppe ai tessuti lacerati e ricucirò le vene che strapperai via. E sarà tanto, diciamolo, sopravviverti.
Ho le mie ragioni, tu le tue, ma le reciproche ragioni non si sommano, non diventano ragioni di coppia, non trattengono, né si annullano, né appagano. Siamo innamorati che non si amano più, regole che non valgono, trampolini speculari che si danno le spalle. Siamo abissi che si sono fusi, che hanno condiviso le ombre e le grotte più intime, i rifugi, gli speroni di roccia. E adesso ci riprendiamo le nostre oscurità, i modi che abbiamo di illuminarle, di arredarle.
Non ero felice con te. Ma ero qualcosa che conoscevo bene. Ero esperto di tolleranze e di ascolto, giocavo e sembrava vero, mangiavo anche ciò che mi era indigesto ed era solo compito mio tentare di digerirlo. Tu facevi parte di quel bagaglio di cose che abbiamo sempre portato con noi, magari usato poco, ma mai pensato di buttare. Di cose.
A volte ci accontentiamo di un rapporto minimo. È più semplice. È pur sempre una solitudine che diventa quantomeno compagnia. È pur sempre un corpo, una voce, delle pretese, delle abitudini, dei progettini chiamati futuro. Il futuro è troppo lungo per farsi soltanto compagnia. Dobbiamo imparare a condividerlo.
Tu parli ancora. Io penso che quel che avanza è troppo grande. In me, un rapporto che non appaga lascia troppi acri di terra all’abbandono. Tu parli, io penso a come dare frutto a tutto ciò che insieme a te ho lasciato andare. Poi ti fermi, se soddisfatta, finalmente taci. Ti si legge negli occhi che è questo il modo in cui vuoi dire addio, che sei stata crudele, incisiva, docile e serena come avevi previsto. E io ti lascio credere che ci sei riuscita.
Mi dici: Ora vado. Mi dai la mano. Te la stringo. La poca forza della stretta è il nostro amore che rantola.
Non ti chiedi perché da quando siamo qui non ho detto nulla. Non ti sembra strano. Ritieni possibile che non abbia una sillaba da dire sulla soglia di un addio. Proprio io che delle parole ho fatto fondamenta.
Mi sorridi di un sorriso preparato.
Ti volti e siamo già lontanissimi. Non posso sapere cosa stai pensando tu.
Io penso a cosa voglio che fiorisca in questo giardino trascurato, e incantato, che si chiama come me.