Mio padre, il tempo e piazza San Marco

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Ci sono luoghi che indossiamo come abiti perfetti.

Sono lì, immobili e in movimento, e ogni volta che ci torniamo siamo a nostro agio come se non ce ne fossimo mai andati. Non importa neppure cosa sia successo nel frattempo. Non importa mai. Il frattempo per certe cose non esiste. Non importa se il nostro animo è ingrassato, soffre la fame, perde chili a vista d’occhio. Non importa se siamo cresciuti, se siamo diventati più pesanti, se la tenerezza all’improvviso ha preso il posto di una crudezza a cui eravamo avvezzi. Non importa nulla, importa solo che abbiamo riavvolto i passi, e siamo tornati.

Siamo a casa. Tutto ci calza a pennello. Le insegne dei negozi, le rughe dei visi, il vento che trova sempre l’attimo giusto, in cui lasciamo indifeso un angolo di noi, e ci entra dentro, ci invade. Sono gli stessi i ciottoli delle strade, i moli da cui partono i vaporetti, il sole che fende la nebbia e si arrende, spesso, a ciò che non può illuminare.

Tutto è com’era. Eccetto noi, che abbiamo girato il mondo in lungo e in largo, curato ferite che non avremmo mai pensato di subire, pianto riserve di lacrime, e trovato parole sparse ovunque per scrivere la nostra storia. Tutto è com’era, ma noi siamo altro. Eppure siamo a casa. Come succede? Come succede che tornando qui il tempo sembra non essere mai passato? In fondo, questo posto, piazza San Marco, la Giudecca, i Frari, è stato periferia estrema della mia vita. È stato dettaglio. Eppure, al pari di pochissimi altri posti, sembra il mio centro storico, quel che definisce la mia identità attuale.

Ci sono luoghi che sono nostri, a prescindere dal tempo che vi abbiamo trascorso. Il tempo, per fortuna, non è sinonimo di intensità, è solo un contenitore molle che siamo noi a riempire con la nostra capacità emozionale. Così talvolta, un luogo piccolo, in cui magari abbiamo preso appena un caffè, o in cui siamo solo transitati, o abbiamo attraversato la strada, o abbiamo colto un fiore, ascoltato una musica, ricevuto un messaggio importante, diventa un luogo imprescindibile per raccontarci. Un valico esistenziale.

Non so perché succede, non esiste un perché, però a me succede spesso. Succede di avvolgermi intorno ai luoghi, fino a innamorarmene, fino a restarci secco. M’è successo. Dopo vent’anni, tornare a Venezia, fermarmi, respirarla, mi ha lasciato in bocca il sapore delle cose belle. Il sapore di momenti in cui la vita doveva ancora accadere, in cui tutto era ancora il contrario di tutto. E ho pensato a mio padre. Quando c’era. Quando in questa piazza, vent’anni fa, guardavamo in alto non so cosa, come ci ritrae questa foto che sta sbiadendo. Ho pensato a mio padre quando avevo fame, e quando avevo sete. Ho pensato a mio padre che qui aveva gli anni che ho io oggi, e aveva me, e guardavamo in alto, e eravamo a Venezia, e la foto sta sbiadendo. Ho pensato a mio padre alla mia età, e ho pensato che aveva ragione. Aveva ragione a guardare in alto, aveva ragione a ridere, aveva ragione a incazzarsi, aveva ragione quasi su tutto quello che io non capivo ancora.

E tutto mi parla di lui, come se in qualche assurdo modo fosse rimasto impigliato all’interno del perimetro sorvegliato delle cose. Per questo, forse, qui mi sembra vivo più che mai e con lui il ricordo del cielo che quel giorno guardavamo insieme.

Certi luoghi ci vestono come abiti perfetti. E anche certi ricordi che in quei luoghi sono stati pura vita. Estratto. Polpa. Come si spiega tutto questo a qualcuno che, per incuria o per leggerezza, non l’ha vissuto mai?

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