Era azzurro, il futuro di una volta. Azzurro azzurro. Almeno così lo avvertivo io. Ignoro le ragioni per cui lo vedevo così, ma ricordava il cielo di Lisbona, com’è solo lì, in quei giorni in cui sembra non passare niente, e invece passano tante, troppe cose, quasi tutte. E succede che ti ritrovi diverso, senza aver fatto nulla, eccetto guardare, mirare, laggiù.
Era azzurro, il futuro di una volta. Quell’azzurro del cielo libero da nuvole, limpido, onesto. Che non ha doppifondi. Quell’azzurro incontaminato. Quasi irreale. Liscio. Quell’azzurro che a un certo punto ti domandi È tutto qui? e ti rispondi Sì, è proprio tutto qui. E ne sei felice. Ecco.
Aveva quelle tonalità che sparigliano, il futuro di una volta. Era lì, laggiù, aspettava. Aveva le braccia conserte. Era convinto che presto sarebbe stato il suo turno, che presto avrebbe svestito i suoi panni eterei e indossato quelli di un presente convinto, garbato, ovvio. Un presente già scritto.
Il futuro di una volta aveva dei nomi. Aveva dei progetti. Aveva dei sogni limpidi. Stazioni di frontiera da non superare mai. Confini, insomma. E aveva un metronomo che accordava i momenti scordati. E una clessidra, inesorabile, che segnava il tempo trascorso, e quello che mancava ad ogni traguardo. Il futuro di una volta era un futuro vero e proprio. Doveva ancora accadere. Era un orizzonte.
Io non lo so cosa succede nel frattempo. Forse succede che ci si scontra con delle imprese titaniche, tempeste, terremoti, epidemie. E certi sogni si perdono per strada, altri cambiano nome, altri muoiono. E succede che, quelli che restano, ti guardano come cuccioli dal cassetto in cui li riponi da anni, con gli occhi lucidi di emozione. Sanno di averla scampata. E sanno di avere un’altra possibilità. Non la stessa, un’altra, diversa, ma valida, dignitosa, reale.
Forse hanno questo di sciocco i futuri che immaginiamo a lungo: posano su congetture malferme, si trovano all’incidenza di tante di quelle variabili che non possiamo valutare, di cui ignoriamo persino l’esistenza. Sottovalutiamo tutti gli istanti che ci condurranno a viverli per come li abbiamo pensati. Ogni istante ha in sé il seme del cambiamento. Ed è una ricchezza. In ogni istante può accadere qualcosa che ridefinisce completamente il futuro di una volta. Lo snatura, lo cambia, lo migliora, magari. Lo rende raggiungibile, umano.
Per questo, in fondo, non mi manca affatto quel futuro lì. Era bello averne uno a quell’età, certo. Ma oggi, che lo abito, non posso che esserne felice. Mi vedo, penso a quell’azzurro, e mi viene da ballarci sopra, da ridere, da scherzare, da ringraziare tutti e tutto ciò che è successo, lutti, feste, amori e disperazioni.
Sono io. Mi so ascoltare. E sono felice di questo futuro qui, sebbene sia così lontano da come lo avessi pensato. Forse agli antipodi. E guardo avanti, e continuo a ballare – e a me nemmeno piace ballare, – le gambe si muovono da sole. Mi scodinzola il cuore.
Qualcuno dice che una vita andrà come deve, qualcuno che andrà come vuole, qualcuno che andrà come Dio ha previsto che vada. Non è mia intenzione, né competenza, entrare in questa dialettica. Del resto, che la nostra esistenza sia il progetto di Qualcuno su di noi, o sia già definita fino ai dettagli, o invece sia totalmente definibile da noi, che importa? Cosa importa se poi sono io a chiedere il pistacchio perché mi fa davvero impazzire, e ci aggiungo poca poca panna perché troppa mi risulta stucchevole, e tremo quando ti sfioro le guance, e piango quando leggo una poesia, o riesco a dire qualcosa così come me lo leggo dentro?
Non importa se tutto sia già scritto, definito, o meno, e da chi, e perché, e come.
Importa che le mie dita, i miei occhi, il mio cuore e i miei polsi esistano davvero mentre lo scrivo.