Roald Dahl e le parole che cambiano

Sento di dover intervenire, nel mio piccolo, intorno a una polemica che rimbalza sulle pagine dei giornali in questi giorni.

La questione è semplice: Puffin, l’editore inglese di Roald Dahl, uno dei più importanti scrittori per l’infanzia del mondo, ha deciso di concerto con la sua famiglia, erede dei diritti dei suoi testi, di edulcorare alcuni termini delle sue opere per “adattarli alle nuove sensibilità”.

In pratica, questo cosa vuol dire?

Che i suoi libri, alcuni celeberrimi come La fabbrica di cioccolato, Matilda, Le streghe, Il GGG, verranno ripuliti da espressioni che, oggi, possono essere considerate razziste, offensive, violente nei confronti di qualcuno, o di qualche minoranza. Alcune di queste espressioni saranno cancellate, altre saranno, appunto, addolcite. Invece di sette nani, sette diversamente alti, tipo.

Bene. Assodato quale sia il punto del contendere, possiamo semplificarlo ponendoci questa domanda: si può agire a posteriori su testi già editi per adeguarli a nuove sensibilità che le società civili maturano nel corso dei decenni, dei secoli? O meglio, più che “si può”, è lecito? È corretto?

Prima di dirvi come la penso, preciso due cose: la prima è che non si tratta della prima volta in cui testi, magari piuttosto datati, vengano modificati per adattarli al linguaggio corrente. Ci sta. Le traduzioni, infatti, sono azioni vive e vegete, compiute da esseri umani storicizzati, e pulsano coi battiti del tempo in cui vengono eseguite. La seconda, molto più banale, è che ogni scrittore è padrone delle sue parole e scrive quello che crede funzionale e adatto alla sua storia. Senza nessuna remore, senza nessun filtro. L’unica osmosi che appartiene intimamente al processo della scrittura è quella che avviene dentro lo scrittore, non fuori. Il fuori è un pubblico.

Quindi, cosa penso di questa questione?

Semplice. Mi piacerebbe che si trattasse solo di un certo tipo di censura. Perché la censura è vomitevole, certo, ma contiene un istintivo moto di rigetto, di rifiuto, di rivalsa, che ha sempre consentito, in qualche modo, sottobanco, di sopravviverne. Qui, invece, parliamo di omologazione. E a me l’omologazione fa molto più paura, perché è indolente, vigliacca, e difficilmente reversibile.

Ogni scrittore al suo personaggio fa dire quello che vuole. E l’uomo di colore, il negro, il marocchino, il nero, il subsahariano, l’extracomunitario, l’estraneo, l’africano, … sono appellativi che caratterizzano lo stesso personaggio che li pronuncia più di tante descrizioni.

Sono così belle le parole che dobbiamo conoscerle tutte. Senza censurarne alcuna. Perché il nostro pensiero dipende da quante parole sappiamo, e da come sappiamo “parlare le cose”. La differenza la fa l’uso che ne facciamo. Siamo sempre noi a decidere quali utilizzare e quando e perché e con chi.

Se leggiamo tutti meno parole, lentamente, inesorabilmente, useremo tutti le stesse parole, e lo spessore del nostro pensiero pericolosamente si assottiglierà.

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