Sono le 20, suona il citofono.
“Chi è papaaà?”
“Il signore che ci porta la cena”
“Chiiii?”
“Il signore che ci porta la cena.”
“Come si chiama?”
“Mmm, Giuseppe, si chiama Giuseppe.”
“Percheeè?”
“Beh, perchè il suo papà e la sua mamma lo hanno chiamato così”
Mi guardi, curiosa, riflettendo su quello che ti ho appena detto.
Pagherei oro per leggerti i pensieri.
Il tizio, “Giuseppe”, ci lascia una busta, lo ringraziamo, lo salutiamo. Tu guardi tutta la scena da una posizione arretrata, come se fossi al cinema e noi fossimo sullo schermo.
Decidiamo di apparecchiare sul pouf del salone, così è basso e puoi partecipare alla cena lasciando cenare anche noi. Sei esaltata dalla novità. Niente seggiolone, niente adattatore per la sedia, niente braccia di mamma e papà. Puoi scegliere di prendere e mangiare tutto quello che vuoi, senza chiedere, e questo ti fa sentire grande.
Prendi una delle sedioline del tuo tavolinetto, la metti accanto al pouf, ti siedi.
“Buon appetito ragazzi!”
Io e tua madre ci guardiamo. Ragazzi?
Metti le mani nella piccola scatolina di patatine, ne assaggi una, poi un’altra.
“Papà dov’è il tuo telefono?”
“Sta sul tavolo Matilde”
“Posso prenderlo?”
Io e tua madre ci guardiamo. Ci chiedi se puoi prenderlo? Che sta succedendo?
“Certo che puoi prenderlo, ma prima pulisci le mani, sono tutte unte”.
Prendi un tovagliolo e cominci a strofinare le mani nervosamente, come fossero la lampada di Aladino e sperassi nella fuoriuscita del genio.
“Che ci devi fare col telefono di papà Matilde?”
“Devo fare una telefonata.”
“Ma a chi?”
“A GIUPESSE, per dirgli che queste patatine sono troppo buone”.
Io e tua madre ci guardiamo ancora.
“Vabbè ma prima finisci le patatine e poi lo chiamiamo, no?”
“No, papà, scusami, no, devo chiamarlo subito. Sono proprio buonissime.”