Non so cosa dire.
Forse non è il miglior modo per iniziare un post che invece qualcosa dovrebbe cercare di dirla. Eppure è così: non so cosa dire. E non si tratta di sterilità emotiva, di improvvisa disaffezione alla vita o di mancanza di idee su quasi tutto ciò che mi circonda. Non si tratta di niente di irreversibile, di niente di definitivo, di niente di virale. Eppure non so cosa dire, in quel senso fragile – forse l’unico – con cui questa frase si può intendere.
Non so cosa valga la pena dire.
Ho pagine e pagine di mezzi racconti. Almeno un paio di prime stesure di romanzi, e una quantità di germogli che non saprei quantificare. Quasi tutti a me graditi. Ho un desiderio di scrivere che mi mangia il petto, certe volte. Che mi sveglia la notte, che mi citofona a casa. Talvolta fingo di non esserci, talvolta fingo di dormire. E non so il perché. Vorrei, ma non lo faccio. Quelle volte, rarissime, che riesco ad aprirgli, ci prendiamo un the frettoloso, poco filtrato, spiacevole. Succede come quando mantieni addosso per mesi un desiderio profondo di vedere qualcuno, poi un giorno lo incontri per caso, è lì, dall’altra parte della strada, e si limita ad accennare un timido saluto col braccio. Come si fa a rimodulare l’attesa quando ci si accorge che non è stata vissuta nel modo giusto?
Aspetto tempo per scrivere in un’eterna attesa non corrisposta. I personaggi che ho incontrato, che ho abbozzato, mi vengono a trovare nei sogni, le parole si affollano in testa, si smembrano, perdono coesione, diventano mucchi di lettere informi, prive di tutto. Cerco tempo, e trovo sempre scuse per non ricavarlo, per non estrarlo dalla mia quotidianità fitta di impegni e preoccupazioni, come quella di tutti.
Ci soffro. Ed è una sofferenza che taglia le mie giornate con sferzate di vento gelido, che si insinua dentro le ossa, sottopelle. Sono mesi che rincorro le mie storie, mesi di fiato corto e di mezzore vergini, rubate a stanchezze indescrivibili, a ore di sonno mai veramente recuperate. E mi chiedo: a che serve? A cosa serve scrivere così?
Non avrei mai pensato di arrivare a una simile conclusione. A chi mi diceva che la vita fagocita persino l’amore per le cose più belle, ridevo in faccia. Coglione che sei, scimunito, ti fai accerchiare, è normale che poi sei prigioniero.
E invece eccomi qui, prigioniero anche io di ritmi e di deliziose idiozie da social network, stanco e sempre vispo per portare avanti sciocchezze e distrazioni, straordinari e malinconie, e sempre poco attento ai bisogni che ho. E mi chiedo: e tutto qui? Dov’è finita quella sicurezza di dire: ne ho bisogno, voglio farlo, quindi il tempo lo trovo? Dove vanno a finire i propositi di una vita, a un certo punto? Dove andiamo a finire noi, quando li trascuriamo dopo averli amati per decenni?
Non so cosa dire. So che una piccola grande attenuante ce l’ho. Il rumore. Questo assurdo, continuo, incessante rumore che c’è intorno a noi. Lo sentite? Non passa mai, nemmeno di notte, nemmeno ad agosto, nemmeno un istante. Un fastidioso rumore di fondo che ci accompagna sempre, ci distoglie la mente da qualsiasi cosa che non sia l’ordinario, il superficiale, l’epidermico. È una lotta impari, è una gara di distrazioni. Non ci sono margini. Portiamo il cellulare in bagno invece di un bel libro, mandiamo messaggi alla guida della macchina, in metropolitana, mentre camminiamo su un marciapiedi, mentre mangiamo a tavola con la nostra compagna di vita che vediamo così poco. Andiamo a finire addosso alle persone senza scusarci. Leggiamo le notizie senza capirle, senza pensare mai al contesto nel quale quelle notizie hanno senso e prendono forma. Siamo tutti re inutili di regni inesistenti grandi qualche metro quadro. Siamo in mostra, come una merce, come un bel vestito nella logorante attesa che qualcuno ci scelga. E poco importa se non gli calziamo a pennello, se facciamo difetto o se non ci tratterà con cura, siamo talmente abituati a una così affollata solitudine che va bene così. Confidiamo nel futuro, per gioco, per abitudine, senza far nulla per renderlo migliore, nulla di niente.
E quel rumore, imperterrito, ci ruba le parole. Perché non le rinnoviamo, non le rinfreschiamo, non le cerchiamo più. Ci limitiamo a ripeterle. Siamo megafoni, non cuori, non cervelli, non lingue. Megafoni.
Non so che dire. Non ho parole, non ho tempo, non ho forse voglia di cercarlo. Il tempo estratto chirurgicamente – un ritaglio, una scheggia, un frammento – mi ha stancato. Mi sembra un proiettile inesploso, lo maneggio con timore, non mi basta. Non mi basta più.
E poi mica è tutto qui. C’è confusione, non la sentite? Corriamo sempre, non ci annoiamo mai. Non siamo più portati all’immobilità. Non siamo più in grado di sopportare il silenzio, la meraviglia del silenzio. Siamo tutti in una nube di polvere che non si posa mai, che è in perenne agitazione. Che toglie prospettiva, che toglie chiarezza.
Ho questo blog, una parte bella della mia vita, dove ultimamente passo di rado. Non so cosa dire. Non so perché. Mi sembra di non avere tempo per scriverci su cose che sento, perché forse non riesco più a sentirle con lucidità, o forse perché ho paura di non saperle descrivere come vorrei. Le parole sono un ingorgo che non riesco a gestire, si affollano, si intrecciano, minacciate dal disordine globale di un tutto che perde progressivamente di valori.
Ho pensato tutto questo per settimane. Poi mi sono detto: ho bisogno di scriverlo. Ed eccolo qui. L’ho scritto! Forse funziona ancora così, è una chimica di bisogni.
Se facciamo tutt’altro rispetto a ciò che amiamo, è perché ci convincono che quello ci farà bene, ci realizzerà, placherà questo spasmo compulsivo che è la nostra vita. Invece ci condanna a bisogni sempre nuovi, sempre diversi.
Il silenzio. La chiave è solo il silenzio, ancora il silenzio, unica cura, unica carezza, unica possibilità di diradare la polvere, lasciarla posare, acquietarla, e di fermare il rumore, di placare l’affanno. Il dono del silenzio come strategia di autoascolto, di autoempatia, di autotenerezza. Ho fatto così, oggi. E ha funzionato! Aver scritto questo post vale molto di più di aver scritto questo post. Significa che quello che amo esiste ancora, da qualche parte.