Sembra che esista un filo sottilissimo tra due persone che si sono amate davvero, anche quando non si amano più. E si lasciano, e si perdono, e cominciano a camminare da sole.
Che poi chiamarlo filo è riduttivo, o forse inadatto. Non si tratta di qualcosa che trattiene, che limita, che ingabbia, che “lega”. Non sempre almeno. Non per quello che interessa a me adesso. Mi sembra assomigli più a qualcosa che è riuscito a sopravvivere, a permanere, una sorta di contatto superstite, che giustifica un rapporto pur minimo e che i più superficiali chiamano affetto.
Io parlo di quella sorta di destino comune che si continua ad avere anche se ognuno ha scelto (o subìto) un destino personale che prescinde da quella persona e da quella relazione. Un senso di appartenenza sfumato, uno sguardo fisso sull’esistenza di qualcuno con cui l’esistenza l’abbiamo divisa per un bel po’, una preoccupazione, una premura, un riguardo.
Non accade sempre, in realtà raramente. Ma accade sempre e solo alle storie, non necessariamente lunghissime, che hanno segnato un’epoca esatta della nostra vita, un momento storico, qualcosa che negli occhi degli altri rimane vivo nonostante siamo altrove, con qualcun altro, e in mezzo sono passati magari dieci anni. E siamo felici, finalmente. Eppure, quando ti incontrano, queste persone continuano a chiederti come stai, come va, e alla terza quarta domanda chiederti di lui o di lei, che tu non senti da anni.
Ora, non so, forse non riescono a concepire un distacco vero, reale, ma solo parentesi in attesa di ritorni. Non lo credono possibile. Può essere. Il distacco spaventa al punto da rinunciarci. Soprattutto dopo una profonda condivisione. Potrebbe essere questo. O magari avrebbero voluto, in una certa fase della vita, chiudere tutto e ricominciare altrove, come è capitato a noi, e non ce l’hanno fatta, hanno scelto la via più semplice e la vita meno felice. Non lo so. Sarebbe da approfondirla questa cosa. Sarebbe da capire se le domande sul nostro passato sono tentativi di abbordaggio o applausi sperticati. Se sono lodi o ferite. Non l’ho ancora capito. Ma rispondo sempre.
Quel che ho capito è che da certi rapporti si guarisce in un modo solo. Facendone a meno. Non ci sono colpe, non ci sono colpevoli. Non c’è neppure motivo di parlarne troppo. Si creano dinamiche malate che non possono rappresentare, per definizione, i presupposti di una vita sana. C’è sempre una predisposizione a rintracciare vittime e carnefici, in realtà spesso il discorso si riduce a chi consente (per motivi o traumi o incapacità o patologie talvolta ineccepibili) ad un’altra persona di fargli male, di ferirlo, di mancarle di rispetto, di non dargli ciò che lo rende felice. In fondo, è tutto qui.
Del resto, la compagnia si sceglie. Ha senso che accanto a noi ci sia qualcuno che desideriamo, col quale la vita diventi quantomeno migliore, più bella. Altrimenti, perché continuare? Facciamoci aiutare, andiamo a parlarne con qualcuno, facciamo tutti gli sforzi possibili, affrontiamo il dolore, ma chiudiamo. E non tanto per la sofferenza che quel rapporto malato ci crea, ma per la gioia totale a cui rinunciamo.
Quel che accade più spesso è che siamo noi stessi a non riuscire a recidere quel filo. Complici del nostro disamore, rimaniamo intrappolati nel passato, e viviamo nel presente. Siamo altrove e ci sentiamo responsabili della felicità e della vita di chi non amiamo più. Abbiamo sensi di colpa e colpi di coda, ricordi appesantiti dall’infelicità di una vita ideale che è saltata in aria, che non ci sarà più. Ma non siamo tour operator che a metà viaggio tornano indietro e abbandonano i compagni di viaggio nella peggior foresta nera al mondo. Siamo esseri umani, che scelgono, che amano, che sbagliano e che hanno diritto di collocare dove credono la propria vitalità.
Si viaggia in due. Dicono. Io credo che si viaggi da soli, e si scelga, poi, qualcuno con cui condividere parte del viaggio. Per questo la cosa peggiore è trascinarsi storie concluse, con la scusa del “filo sottilissimo tra chi si è amato davvero”. Si crea un precedente inarrivabile (la bellezza della gioventù non teme confronti), che disturba il presente, che lo delegittima, che lo trattiene. Idealizzare il passato è un procedimento mentale tutto umano, ma dimentichiamo che se fosse stato così perfetto oggi non avremmo un presente diverso, non saremmo altrove. Siamo il risultato di qualcosa di cui dovremmo andare comunque fieri. Occorre scardinare questa visione parziale che ci fa cambiare vita, relazioni, sentimenti, luoghi, amicizie, e restare comunque, in un certo modo, nel luogo-persona da cui siamo partiti. Come mongolfiere mai sciolte da terra, che si illudono di volare e restano per sempre nello stesso spicchio di cielo.
Occorre imparare a separarsi davvero dalle persone che non fanno più parte della nostra vita. E dare spazio a chi, oggi, ci fa sorridere, sentire amati, sentire vivi. Non esistono altri modi per vivere qui. Adesso.
Lasciar andare, per riappropriarsi.
Liberare, per liberarsi.