Ero in fin di vita, sei anni fa o giù di lì.
Cercavo slancio nei ricordi – che è sempre un’idiozia -, vedevo brillare ancora qualcosa che aveva brillato, e aveva smesso. Disimparavo ad amare, ogni attimo un po’, insistevo nel volere ciò che non potevo, nel capire ciò che non mi era dovuto. I percorsi, certi percorsi, sono circonferenze. Si esauriscono là dove sono iniziati, nello stesso punto, e sembra di non essersi mossi, perché abbiamo l’abitudine di valutare solo dove andiamo a finire, non come, non quando. Non cosa è successo nel frattempo, e cosa ci ha ricondotti lì, né cosa contiene quella circonferenza.
Sono partito, sei anni fa. Ho preso un biglietto e sono partito. L’illusione è sempre la stessa: cambiare cornice per cambiare quadro. Non è così, ma senza lacrime non lo capisci. Devi andare. Devi lasciare la tua casa e cercarne altre, altrove, devi smarrirti dove qualcuno parla differente e farsi capire non è più soltanto una questione di diverse sensibilità, ma anche di lingua. Devi subire il silenzio, sentirlo invaderti lo stomaco, sentirlo divampare, fino a percepirlo come un profondo benessere. Devi vagare, sì, a caso, per strade senza nome, per vicoli fioriti che ti finiscono davanti, costringendoti a riavvolgere passi, a percorrere a ritroso sentimenti. Ecco, lì, di fronte a muro troppo alto, che interrompe strade su cui avevi contato, afferri il valore enorme di un errore, di un ritorno, di un tentativo. Impari il valore immenso di un bagaglio tuo. Altrimenti no.
Ero padre di molti e in molti modi, sei anni fa, senza avere nemmeno un figlio. E trascuravo me stesso, come se fossi l’ultimo per me, e forse lo ero. Una riserva, un avanzo, un cordiale disimpegno. Nel cuore uno scarabocchio, nella vita ipotesi spuntate, nel futuro un cespuglio di spine. Se mi avessero chiesto dove sarai tra sei anni, sarei rimasto zitto, con le parole conficcate nel palato come asce in un tronco.
Sono partito. Ricordo un volo tormentato. Ricordo una donna sulla cinquantina che guardava fuori e cercava con lo sguardo ogni attimo qualcosa. E non capivo cosa ci fosse, sopra le nuvole, di tanto importante. Delle nuvole mi importava così poco. Ricordo suoni attutiti, paesaggi sbiaditi, sapori incerti. Ricordo che ero da solo per la prima volta, nel periodo peggiore della mia vita, in un paese straniero. Poi non ricordo più nulla, solo passi su marciapiedi bianchi e neri, bicchieri di vino profumato, sorrisi sconosciuti, scatti improvvisati, gabbiani, qualche stella, un faro, l’oceano, un autobus a due cifre, un piatto di baccalà e patate al forno, un pane ai cereali, una macchina viola, un religioso, fastidioso, continuo, imperturbabile silenzio che mi ha denudato e reso complice di quel dolore che avevo portato con me, fin laggiù. E poi più nulla, giorni scomparsi come sassi lanciati in un burrone.
L’aereo di ritorno. Scorrevo le foto sul mio cellulare, prima del decollo. Avidamente. Cercavo colori su foto in bianco e nero. E mentre cercavo, e l’aereo decollava, mi sono accorto di una cosa che mi era sfuggita: non avevo nessuna foto di me da riportarmi indietro. Solo paesaggi, solo esterni, solo dettagli del mondo, niente di me.
Dal finestrino, un attimo dopo il decollo, ho visto quel ponte imponente che teneva insieme due lembi di terra così aspri, lontani, ostili. Un ponte che sa tenere insieme sponde altrimenti estranee. Ho pensato che mi ci sarebbe voluto quello, per sopravvivere. Esattamente quello: qualcosa che mi teneva insieme. Qualcosa che mi teneva intero.
E così è stato. Per fortuna.
Per questo sono felice di tornarci, oggi.
Di tornare a prendere quel dolore, lì dove l’ho lasciato, adesso che non fa più così male.
Perché grazie a quel dolore io mi sono salvato.
Mi farò foto, foto in cui sorrido.