Abbastanza

hotel

E. Hopper – Hotel room (1931)

Abbastanza, mi rispondi.

Sorrido, ma non vorrei sorridere. Tu ti volti, eviti i miei occhi. Osservi, lontano, laggiù, un punto che non contiene nulla di interessante, eppure per te sembra fondamentale. Un appiglio, un galleggiante, una via d’uscita, un ponte.

Hai fretta, si vede, hai fretta di andare da qualche parte che non sia qui. E che forse non esiste. Ti tocchi le dita con le dita, le accartocci, le mescoli. Non trovo nulla di migliore da dire, se non Perché abbastanza?
Fai un sospiro, ma cerchi di nasconderlo. Lo soffochi a metà, lo inghiotti.

Abbastanza, perché non va male, no, davvero, ho passato momenti molto molto peggiori, ma nemmeno bene bene, che devo dirti…

Non avrei voluto, credimi, non avrei voluto chiederti come va, se stai bene dopo tutto questo tempo. Aprire casse seppellite piene di ricordi putridi. Non avrei voluto, ma si fa così. Non è colpa mia, capisci? Ci si incontra, si finge stupore, ci si bacia con partecipazione, e poi ci si chiede come stai. Lo fanno tutti.

Ho saputo che ti sei lasciata da qualche mese, forse un anno, a un passo dal matrimonio. Che non c’erano altre persone, eccetto voi due. Almeno quello, precisi. Ma è una precisazione che inganna la tua serenità, il tuo desiderio di spiegazioni, la tua necessità di pace. Molto più difficile dire a se stessi che il problema non è l’umana confusione rispetto a un rapporto nuovo, lucido, pieno di fascino, ma che c’è altro, e non si sa come chiamarlo. E che voi due, all’improvviso non vi siete riconosciuti più, come quando apri un documento dopo tanti anni e vedi quella foto, la tua, e non ti sembra possibile esser stato quella persona lì prima di questa qui. Dici mamma mia! mica ero io questo qui, no, non è possibile. Più o meno è andata così, un decennio di vita passato talmente accanto da confondervi, da dimenticare chi era uno, chi l’altro. Ecco, così. Senza troppo altro.

Adesso cominci a camminare. E io non so se seguirti, o se lasciarti andare. Ti fermi dopo qualche passo… vieni? E prendo a camminare con te. Resti in silenzio per un po’, poi dici una cosa, una sola, che mi lascia intuire il tuo livello di sofferenza. Dici: ne abbiamo parlato, noi due. Abbiamo capito che non ci interessava tanto incolpare l’altro, rinfacciargli che fosse diverso da quando ci eravamo innamorati. Quello succede. Ci interessava molto di più capire com’era capitato che fossimo così tremendamente diversi noi. Io e lui, separatamente, ognuno nel suo modo di essere così stravolto, così inquinato dalla vita.

E vi siete separati a poco a poco, non senza residui, dolori, ripensamenti estemporanei. Vi siete sfilacciati, come una garza strappata a metà, lentamente. Ho saputo che ti sei gettata fitta fitta nel lavoro, e che hai tenuto duro, hai cercato sentieri di fuga, percorsi nuovi, soprattutto te stessa. E stai bene, adesso. Abbastanza.

Hai 38 anni. Mi dici di sentirtene molti di più. Vorrei riconoscermi una certa emancipazione… ma nei sentimenti sono ingenua. Prima di lui, prima del tuo quasi-marito, hai avuto solo storielle, solo incontri, e oggi, che sei donna, non sai più come si fa ad aprire il cuore – non le gambe – a qualcuno che non sia lui, a una dimensione affettiva che funzioni. Ci si dimentica persino questo: come ci si innamora, come si accetta qualcosa che non c’era e all’improvviso diventa importante. Come gli si fa spazio.

Parliamo di questo. Del fatto che non abbiamo la stessa età in ogni ambito. Interessante. Che la nostra età di vita non comporta una crescita parallela in ogni ambito. E sembra banale, ma a un certo punto dici che se ci fosse una carta d’identità per tutto sarebbe molto più semplice. E fai un sorriso amaro, bellissimo.

Età 38. Sentimenti 24. Maturità 52. Responsabilità 48. Sesso 16. …e così via…

Uno lo saprebbe a che punto sta e cosa potrebbe permettersi. Potrebbe correre ai ripari. Investire negli aspetti su cui è in difficoltà. O dirglielo chiaramente a quell’uomo che ti arriva nella vita e sembra perfetto, e sembra quello giusto. Dirglielo che tu sembri così donna, così matura, così pronta a un futuro splendido, ma in realtà sei una bimba, una semplice bimba innamorata, e deve fare piano, pianissimo, perché sei fragile, e lì dentro si rompe tutto.

Invece l’età inganna. E ci portiamo addosso gli anni come garanzia sociale di maturità, di forza, di equilibrio. Come se la strada della vita fosse una, e la percorressimo tutti allo stesso modo, con lo stesso ritmo, con la stessa efficacia, prontezza, resistenza. Come se avessimo tutti la stessa preparazione, lo stesso obiettivo, le stesse capacità.

Questo va capito, mi dici, prima di incontrare chiunque. Siamo tanti. Dentro, siamo tanti. E ognuno cresce a modo suo.

Arriviamo alla tua macchina, dopo un po’ di silenzio. Mi saluti e mi allontano senza voltarmi, sento che metti in moto e te ne vai. Ripenso alle tue parole, le ultime. Ti ho chiesto: stai abbastanza bene quindi. Ma abbastanza quanto?

E chi lo sa davvero quanto sia “abbastanza”? Possiamo solo vivere di tanti abbastanza provvisori finché non incontriamo “tutto”. Lì probabilmente capiremo tutti gli abbastanza della nostra vita.

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