Ho imparato che il sonno non basta per addormentarsi.
Ci sono sere in cui la testa diventa un lungomare, e tanta gente sceglie di passeggiarci dentro, di fermarsi a lungo, interferire. Il soffitto cambia colore, le lenzuola non esistono, la finestra mente. Il vento, sottile come certe nevicate, prova a farmi carezze.
Il sonno non basta per addormentarsi.
E ne ho, ne ho molto in queste giornate ricche di nodi, di silenzi, di parole omesse senza obiezioni. Vorrei finire addormentato come si cade da un dirupo, senza tutele. Vorrei che il sonno lavasse via questa sensazione che mi porto addosso come un vestito stretto, che priva di agio ogni movimento.
Il sonno non basta. Tutta questa gente mi appartiene e mi abita. E non posso mandarla via. Non posso sceglierla, e nemmeno dimenticarla. Non posso averla e nemmeno biasimarla. All’improvviso ho capito che ho paura. E non è una paura dritta, ma ha tanti di quei cunicoli, tante di quelle anse e di quei vicoli, tante di quelle grotte, di quei passaggi segreti, che non raccapezzo più nulla. E non è tanto paura di sbagliare, ma paura di perdere la capacità di capire dove sbaglio. Perché ce l’ho, mio malgrado. Arriva tardi, ma arriva. E definisce le cose, ci appoggia sopra una luce bianca, pulita, le chiama per nome.
All’improvviso ho imparato che si sbaglia. Si sbaglia tanto e continuamente. Ci si perdona senza perdonarsi, per rimproverarsi ad ogni occasione. Si sta insieme per compagnia, non per condivisione. Ci si ama senza amarsi, ci si apprezza e ci si riempie di sottintesi, finché l’altro ci sta accanto, poi, all’improvviso, tutto diventa merda, diventa fango, diventa rifiuto. Dal paradiso all’inferno, senza fermate. E mi chiedo come sia possibile. Come può, qualcosa, prendere forme così diverse, in pochi attimi. Un gatto che diventa cane, poi topo, poi leone, poi formica.
Come tante altre cose nella vita, ho imparato tutto questo all’improvviso. Come il dolore di uno schiaffo. Ho imparato che si sceglie, in qualche modo, continuamente, anche senza scegliere. Ho imparato che si può far male senza volerlo, e che, nonostante l’amore, a volte si fanno danni che a ripararli non basta una vita. Ho imparato l’attesa, l’evoluzione minima, lenta ma inarrestabile, che le cose belle hanno per conto loro, a prescindere da noi. Una sorta di motore, un galleggiante, un’armatura. Qualcosa che travolge senza intaccare. E ho imparato che i paesaggi, tutti, cambiano in un batter di ciglia. E noi possiamo scegliergli, apprezzarli, fotografarli, ma cambiarli mai. Mai.
Ecco, l’ho imparato all’improvviso. Talmente all’improvviso che due tre settimane fa non avrei scritto tutto questo, e non l’ho fatto. E non ho potuto farlo. Ho dimenticato come si scrive. Mi è successo per una serie di ragioni che non capisco. E mi spaventa. La scrittura è nervatura del mio essere.
Ma non è tutto qui. Ho imparato anche e soprattutto che le cose, e le persone, esistono e continuano ad esistere quando sono con noi, e quando sono lontane da noi. Sono le stesse! Sono le stesse che ci facevano ridere, o incazzare. Godere, o piangere. Sono le stesse per cui avresti fatto sacrifici indicibili, avresti gioito o pianto. Le loro mani sono quelle che tenevano le tue, le loro labbra, i loro occhi, i loro capelli. Sono le stesse, identiche.
Sono loro, soltanto che non ci sono più.
Stasera, sono colmo di tutto. Sono una pista battuta, un percorso segnato, un sentiero buono per arrivare prima senza trascurare i paesaggi più belli. Sono una scusa, detta per tenersi vicini nonostante la vita. Sono un insulto, uno schiaffo, una bestemmia. E poi parole splendide, dette per emozioni incontenibili, per gioie mostruosamente umane. Sono tutto, e mi sento poco.
Ho imparato che le strade non le scegliamo soltanto. Alcune ci scelgono. E continuano a camminarci addosso anche quando le abbiamo lasciate da un po’. Ci si attorcigliano contro. Come si fa a far smettere questo viavai che mi disturba profondamente, mi distrae, mi aliena?
L’unico modo per farle smettere di passeggiare in testa, e iniziare a dormire un po’ e trovare pace, è comprendere che si può essere parte della vita di qualcuno, pur sostanziosa, pur imprescindibile, ma non la vita intera. Siamo i nostri unici eterni compagni di viaggio.
L’ho imparato, è una delle cose che ho imparato all’improvviso: accettare il passato, apprezzarlo comunque, e il tempo bello, e quello che lascia, scie fotografie ricordi, e accettare che passi, che ci attraversi, come il dolore, come la gioia. Amarlo a prescindere. Resta questo l’unico modo per separarlo dal futuro. Lasciarlo andare. Sganciarlo. Chiamarlo in un altro modo.
E magari intercederlo il lungomare che abbiamo dentro. Almeno quando ci sono quei temporali terribili che non si vede a un metro. E certi maremoti che inghiottono tutto.
Si può fare.
“Lavori in corso.”
Si passeggia altrove.
All’improvviso si impara soprattutto che oggi – ora, qui – è l’essenziale per abitarsi di nuovo.