Cieli, vibrazioni e falsi ritorni

dal film "Treno di notte per Lisbona"

Per quanto lo si possa attendere con puntualità, per quanto lo si possa aver previsto nei dettagli, il momento di tornare è sempre un momento imprendibile. Contiene la sensazione lieve e magnifica di riguadagnare il nostro posto nella vita.

Deve accadere, insomma. Il ritorno è previsto nel concetto stesso della partenza, è organizzato. Eppure, quando accade, ha questa incredibile capacità di farlo in un modo esatto, differente ogni volta, quasi imprevisto. Come se da un momento all’altro qualcuno ti toccasse una spalla e ti dicesse: devi andare, ricordi? Mica puoi restare qui!

Mi ha sempre affascinato il pensiero sul motivo per il quale siamo nati in un posto, lo abbiamo abitato fino alla maggiore età, e siamo rimasti quando altri se ne sono andati, e abbiamo trovato un lavoro, amato una donna, cresciuto un figlio. Mi ha sempre affascinato il concetto di restare. Di scegliere di restare, quando è così bello andare via, esplorare il mondo, andarsi a prendere un posto che abbiamo visto, abbiamo scelto, abbiamo desiderato dopo essercene innamorati.

Che poi, forse, è riduttivo parlare di motivo. In fondo è un caso. Imprevedibile, semplice, talvolta crudele caso. Ma perché, in sostanza, ci accontentiamo dei luoghi in cui siamo nati? Non lo so. Non mi va nemmeno di ipotizzare idee sciocche di fronte alle mille variabili concrete di ogni vita. Anche perché spesso ci si muove per lavoro, per amore, per studio. E sono altre cose. Io intendo quando prendi, viaggi, conosci un luogo e te ne innamori. E dici: io voglio vivere qui. Non ne capisci la ragione, senti solo una vibrazione particolare, qualcosa che parla, qualcosa che dentro ti fa fremere ad ogni angolo di vita.

Treno_di_notte_per_LisbonaNon lo so perché ci accontentiamo del posto in cui siamo capitati. Quello che posso dire è che, nel corso della vita, ognuno di noi incontra posti che sono casa. Non c’è ragione per questo. Avviene un cortocircuito che non si afferra, ma definisce. E ci sentiamo a casa altrove, dove fino al giorno prima non avevamo messo piede. Solo che a volte succede tutto un po’ tardi, all’interno di un incastro di cose in cui non possiamo più realmente intervenire.

A me, tutto questo – tutta questa bellezza a posteriori, – è capitato una volta sola, in 35 anni. Ed è capitato qui, a Lisbona, ogni volta che sono tornato.

Proprio qui, dove adesso le valigie ruggiscono, e ricordano che tu non sei casa mia. Che sono atteso altrove, che questo cielo non posso far altro che portarmelo dentro. Non c’è nostalgia, c’è consapevolezza. Resta il fatto che ti ho trovata bene, bene davvero, in questo aprile piovoso e bellissimo. Sei in forma smagliante, sei limpida, sei ferita nei tuoi scorci più intimi, come tutti noi, ma sei dolce nel tuo equilibrio in bianco e nero, nelle vetrine di negozi abbandonati come durante un terremoto, nelle viole fiorite delle tue periferie, nel tuo fiume che diventa mare, e poi smette all’improvviso nell’oceano. Stai bene, qualche volta hai quelle confusioni interiori che sono di tutti, qualche volta sorridi, altre meno, magari ti commuovi. Ma non sei mai indifferente a niente, e vorrei essere come te, diventarci, impararlo. Non dire mai, mai: per me è lo stesso, per me è uguale. Perché niente è mai lo stesso, niente è mai davvero uguale a qualcos’altro. Come questo cielo, che è cielo, ma è solo qui. Come la luce che taglia l’aria e disegna i palazzi bianchi, che è luce, ma è solo qui.

Hai cominciato a sussurrarmi, poi. Le persone hanno cominciato a parlare, a parlarmi. Mi hai detto qualcosa che non ho dovuto più intuire. Ed è così che ci si innamora. Con le prime parole, con i primi sussurri. Ci si innamora con le prime confessioni. Tu le tue, io le mie.

Vado, adesso. Non ti chiedo di aspettarmi, non sono così ridicolo. Non ci si aspetta mai veramente, siamo palle matte. Rimbalziamo dappertutto, senza controllo. Non conosciamo quiete, non vogliamo pace. Ci spaventa, la pace. Come se fermarsi fosse iniziare a morire.

Quel che mi piace pensare è che tu sia una di quelle eventualità di vita felice che non è accaduta ma che avrebbe potuto. Un luogo dove, invece di scrivere, magari avrei suonato il clavicembalo, cantato lirica, mangiato vegetariano. Dove magari avrei scelto la stessa felicità in un altro dei mille modi possibili.

Torno a casa, vado.

Anche se tu, davvero – lo dico davvero, – sei casa mia in un modo diverso che è quasi lo stesso.

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