Non è colpa di nessuno. Mi dico questo. Del resto non possiamo ricordare sempre tutto. Non siamo memorie digitali, non siamo diari, non siamo agende. Siamo esseri umani, e per quanto mi stia sforzando di ricordare quand’è stata la prima volta che l’ho vista, non lo ricordo.
So che va così. Ci si vede una volta, non ci si fa caso, poi ci si ritrova a vivere praticamente accanto per 16 anni. Sarebbe utile ricordare quel momento, il primo, almeno per me. Do molta importanza agli inizi delle cose, mi sembrano necessari e, in un senso più ampio, una sorta di radice, di accordo generale prima del concerto.
Di lei non ho nulla di tutto questo. Solo cornici temporali entro cui la rivedo, entro cui sono certo che sia stata accanto a me, intorno a me, da qualche parte. Ha attraversato tutte le epoche che mi paiono questi anni passati, le ere geologiche della mia vita da quando ho iniziato a essere un ometto e svestito i panni dell’adolescente con la riga in mezzo, vestito sempre di scuro, brufoloso e invadente.
Un giorno entra a casa, non ricordo neppure se era estate o inverno. Stava in una mano. Aveva un passo saltellante, ma timido. Avrebbe voluto arrampicarsi sui muri, ma si guardava intorno con circospezione e timore. Saltò su una sedia, rimase lì per ore, sul cuscino consumato che le sembrava morbidissimo. Si addormentò quasi subito. Noi parlavamo di come gestirla, di cosa fosse necessario fare. Avevamo avuto diversi cani, ma un gatto mai.
Così, le prime notti le passò in salotto. C’era ancora mio padre. Si divertiva a correrle dietro nel lungo corridoio di casa. Ricordo lei, Pallina, cercare con le zampe posteriori un attrito che sulle mattonelle lisce del pavimento non aveva. E correre correre correre, rimanendo praticamente ferma.
La ricordo portare uccelli morti e lucertole sull’uscio di casa. O prendere la rincorsa per salire su un albero piuttosto alto che abbiamo in giardino. Era lì, sempre. Chi ha un animale domestico mi capirà. Era lì a prescindere dal sole, dal tempo che passava, dal nostro umore, dalla nostra voglia di darle una carezza. Sono innumerevoli le volte che le sono passato accanto senza neppure sfiorarla, eppure in un qualche modo la sentivo. Aveva quella presenza ingombrante che hanno solo le grandi personalità. Sciocco parlare di personalità riferito a un animale? Non credo. Non credo affatto che sia sciocco.
Era una gatta altezzosa, con un portamento fiero ed elegante. Era riservata. Stava moltissimo tempo da sola, fuori, all’aria aperta. Per quanto abbia avuto sempre la garanzia del cibo, non ha mai smesso di procacciarselo. Era selvaggia, in quel modo in cui sanno esserlo i gatti che difficilmente sottostanno alle regole domestiche. Era libera. Libera davvero. Esplorava i dintorni, tornava anche dopo qualche giorno. Non sapevamo mai dove fosse, o dove andasse quando mancava. Ma tornava, tornava sempre.
Si lasciava accarezzare il giusto. Poi fuggiva. O si rivoltava con denti e unghie. Era questo, forse, a renderla particolare. Non ne voleva più, a un certo punto, di carezze. Non voleva carezze e basta, non voleva carezze a prescindere. Era autonoma, e nonostante questo sceglieva di restare.
Mi è sembrato, ad oggi, il più grande esempio di quel che dovrebbe essere un rapporto tra esseri umani.
E poi, adesso che non c’è più, questi anni in cui c’è stata mi sembrano così brevi. Li ricordo come fossero un mese. Accade sempre così. Che il vuoto che lascia qualcuno che conta contamina i pieni che abbiamo architettato per tenere in piedi la nostra vita. Le cose belle, insomma. Quelle che funzionano, quelle su cui contiamo.
La rivedo sdraiata di fronte al cancello, sotto un sole primaverile. O seguirmi sulle scale, fino alla soglia. La percepisco attorno mentre schiavardo la porta, o mentre scendo dalla macchina. Era lì. E questo esserci comunque è ciò che di lei mi rimane addosso.
Da qualche giorno non c’è più. Non so dire cosa provo, cosa resta qui, nei luoghi dove c’era e adesso no. Ombre, fantasmi, aloni di qualcosa che non saprei chiamare per nome. Ho sensazioni, più che ricordi. Come qualcosa che non sta più in equilibrio. Non come prima. Come qualcosa che è cambiato molto più di quanto sembra. Forse le presenze importanti hanno questa peculiarità, soprattutto. Cambiano gli equilibri. E ci vuole tempo, ci vuole altro, ci vuole pazienza per trovarne un altro.
Mi auguro solo ci sia qualche albero, dov’è adesso. Così con due balzi può arrivare in cima e guardare giù con quegli occhi furbetti e pieni di vita.