Approdi

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Viviamo per obiettivi. Inutile farla lunga. Inseguiamo risultati, siamo macchine da curriculum, siamo robot, siamo marchingegni dotati di troppo radicata insoddisfazione per accontentarci della vita che abbiamo.

Contano i numeri, le caselle che riempiamo in un ideale elenco infinito di cose da fare, i luoghi che visitiamo su un planisfero che abbiamo marchiato a fuoco nella nostra testa, contano i cibi che abbiamo assaggiato, i film che abbiamo visto, gli artisti che apprezziamo e che inseguiamo in lungo e in largo, per la necessità così umana di sentirci vivi, accesi, intonati a qualcos’altro che non sia il nostro stesso petto.

Ci affrettiamo, ci sbattiamo. Ce lo hanno insegnato. I nostri genitori, i nostri educatori, le nostre esperienze. Ci hanno insegnato che star fermi è malattia, pigrizia, apatia, noia. Ci hanno educato alla prestazione massima, il resto lo hanno chiamato depressione. Ci hanno detto che non avere followers è stare soli, che avere pochi amici sui social è fare una vita di serie b. Che non essere i primi è essere quasi ultimi, comunque ultimi.

Corriamo a perdifiato, arranchiamo ma non rallentiamo, acceleriamo semmai. E abbiamo dimenticato come si cammina, come si nuota, come si respira. Abbiamo smarrito il sapore delle cose, il metro per misurarle, la capacità di ascoltarle, gli occhi per scrutarle. E in nell’elenco infinito in cui continuiamo a spuntare caselle (fatto, fatto, fatto, fatto, …) non ci rendiamo conto di come in sostanza la nostra vita sia sempre più un curriculum di luoghi visitati (ma non visti, vissuti, apprezzati), di cibi mangiati (ma non assaporati, né apprezzati), di film visti (ma non ascoltati, compresi, colti), di obiettivi raggiunti (ma non sentiti, non percepiti, non realizzati davvero). Siamo semi-automi che continuano a fare le cose degli esseri umani, in un riverbero di vitalità antica, che lentamente si spegnerà. E ci piace illuderci di provare molto, di essere piccoli poeti delle nostre quotidianità. In realtà, fin troppo spesso, non proviamo neppure abbastanza, neppure qualcosa. Inanelliamo esperienze a batteria, consumiamo cose non necessarie, fingiamo sensibilità non nostre. Ecco tutto.

E tutto questo non sarebbe poi così male, non sarebbe poi la fine totale, se non fosse che in questo baillame ci dimentichiamo di vivere. Ci dimentichiamo quel che vogliamo veramente, e chi siamo, e quanto conta nell’unicità della vita la scelta di chi quella vita la vive quella volta sola.

Quindi la gravità estrema riguarda non tanto quel che si è detto finora, il meccanismo infernale in cui siamo finiti tutti, ma il fatto di sceglierlo. O, per meglio dire, di accettarlo. Di subirlo senza ribellarsi. Anzi giocandoci quasi, trovandoci alla fin fine perfino a nostro agio. Questo no. È imperdonabile. È uno spreco. La bestemmia dell’esistenza.

Mi sono venute in mente queste parole osservandoci. Nelle stazioni, nei bar, in fila ai semafori. Tutti di corsa verso nulla. Tutti arrabbiati per un’insoddisfazione che ci rovina le giornate ma che spesso neghiamo di provare, o accettiamo solo a patto di farla ricadere sulla sfortuna, sul caso, sulle mancanze degli altri o sulla vita che è troppo dura e troppo difficile. E come spesso mi accade, ho pensato a un’immagine che sembrava entrarci poco, ma che in realtà mi ha incuriosito. Una nave che approda in porto, dopo un viaggio estenuante, durante il quale ha persino rischiato di affondare, durante il quale ha resistito agli assalti dei pirati, a un ammutinamento, alle secche e ai ghiacci del nord. Ecco, quella nave che entra in porto, si aggrappa alla terra, si riposa, si rifocilla, si ristora. Quella nave ha raggiunto un suo obiettivo, e se lo gode, lo apprezza, resta. Resta il tempo necessario a sé, resta il giusto, sa rimanere.

Noi siamo navi senza approdi. Non restiamo. Non abbiamo ancore. Raggiungiamo porti consecutivi senza fermarci nemmeno il tempo di un saluto. Pensiamo già al mare aperto, pensiamo già alla rotta successiva. Siamo turisti senza luoghi, viaggiatori senza meta. Passiamo. E andiamo via. E ci basta andare. Questo ci raccontiamo. Questo ci urliamo. Fino a quando? Fino a dove?

Ci appartiene davvero un’esistenza vissuta a caso, a mille all’ora, fingendo che vada tutto bene per la paura di affrontare il tentativo di cambiarlo?

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