Resti a fissarmi, sembra che abbia detto qualcosa di tremendo, di imperdonabile, di poco rispettoso. Invece no. Ti ho soltanto chiesto perché. Ti ho soltanto chiesto come fai a rimanere in una storia d’amore senza provare più amore.
La mia domanda è banale. Eppure cominci a guardarmi con gli occhi socchiusi, con un viso più cupo, quasi arrabbiato. Mi dici: ancora non so se non lo amo più.
E io faccio passare del tempo. Qualche secondo. Spesso il ritmo che diamo a una conversazione la inasprisce più del contenuto. Poi inizio a ricordarti delle cose. Ti elenco una serie di momenti più o meno recenti nei quali lui “non è stato all’altezza”. Parole tue. Venivi da me, a volte in lacrime a volte esausta, e mi dicevi: non è stato all’altezza, secondo me non lo fa nemmeno apposta, non ci riesce proprio. Giustificavi nonostante tutto.
E i momenti che ti elenco non sono sciocchi. Non si tratta di dettagli. Si tratta di lutti, di delusioni profonde, di problematiche gravissime. In queste situazioni lui non c’era. È fuggito. Non solo psicologicamente, se n’è andato proprio. È tornato dai suoi per finire di studiare, laurearsi, riprendere in mano la sua vita. Come se stando qui, stando con te, l’avesse smarrita.
Tu mi ascolti e nei tuoi occhi leggo che sei d’accordo con me. Però taci. Parlare equivarrebbe a dare a questi pensieri una forma che temi, che implicherebbe scelte radicali, addii. Le parole hanno questa capacità: danno forma alle cose, e consistenza. Le assemblano, le levigano. Lavorano sulla realtà. La incidono.
Così, da questo tuo silenzio, comprendo che c’è una breccia. Qualcosa su cui poter insistere. E insisto. Ti chiedo perché ti lamenti di lui e poi non te ne allontani, perché pur potendo prescinderne con discreta facilità rimani in una situazione che ti limita, che ti abbrutisce, che tu per prima definisci mortificante, finita, esaurita.
Mi guardi. Sappiamo entrambi che lui è a 600 chilometri, che non lo vedi da due mesi, che non lo vedrai per almeno altre 3 settimane, e che ti senti abbandonata, che ti senti triste, che per te questa storia che si arrovella su sé stessa inizia a marcire davvero. Solo che nei tuoi occhi leggo bei ricordi, leggo i primi anni di tenerezze e attenzioni, di intesa e di amore. Leggo una convivenza dolce, un tempo lieto, che ancora ti occupa il cuore (come il peggior invasore), nonostante ormai siano passati quasi due anni. Nonostante sia tornato a casa proprio nel momento in cui tu avevi più bisogno di lui. Nonostante, in mezzo, in questi due anni, ci siano state sofferenze atroci e esperienze indimenticabili, sorrisi, segreti, altre eventualità che hai accantonato senza viverle. E tu abbia vissuto tutto questo da sola.
Mi guardi. E vorresti dirmi mille cose che hai già detto mille volte, poi ti tieni le mani con le mani e sussurri: io ho paura di stare da sola. Non voglio.
Resto in questa frase. Mi ha intrappolato. Da quando ti conosco non mi sono mai sentito così. Per la prima volta, in tutti questi anni, provo per te qualcosa di simile a un affetto paterno. So che ti aspetti da me tutto un discorso sullo stare insieme, sull’idiozia di scegliersi qualcuno e chiamarlo amore a prescindere da cosa quel rapporto sappia darci e, in ultimo, ci dia. E ti aspetti che mi incazzi, che urli, che dica ma non vedi che stai perdendo tutto il tempo del mondo? Non lo vedi che ti passa addosso la vita mentre sei girata altrove? Non lo vedi che è finita? Cos’altro deve accadere, cosa deve farti ancora per lasciarti intendere che non è la persona per te?
Però non dico nulla. Per una volta tengo a freno l’impeto col quale certi discorsi mi salgono dal ventre. E mi torna in mente quando da piccolo conobbi i primi rudimenti di matematica. I numeri. Le operazioni. Provavo riverenza per quel mondo fatto di nulla, etereo, che sembrava governare il mondo delle cose reali, concrete. Regole invisibili per un mondo fatto di terra, sangue, sudore. Mi affascinavano. Mi incuriosivano.
Quando facemmo le radici quadrate non le capii. Non mi piacquero. Quel simbolo mi inquietava. Un uomo con un braccio tagliato, qualcosa del genere. E nell’operazione in sé ci vedevo qualcosa di simile alla sottrazione, di analogo alla divisione, ma più crudele. Non si trattava di perdere una parte, o di dividersi in parti uguali tra più elementi. La radice quadrata faceva qualcosa di peggiore: privava un numero di ciò che era in potenza. Perdonate il gioco di parole (nemmeno troppo ardito), ma era proprio così. E non potevo certo immaginare quanto questi pensieri piccoli di bambini potessero essere utili a capire cosa succede nelle storie d’amore.
In fondo cosa succede, a farla breve? Quando amiamo diventiamo altro. Siamo sempre noi, ma in potenza. Aumentiamo le nostre capacità praticamente in ogni campo, siamo allegri, ricettivi, gioviali. Poi capita che le storie finiscano, che gli amori passino, e qualcuno comincia a pensare che senza amore non si esista più, che non ne valga la pena, che non sia nemmeno vita, che stare da soli sia tempo perso. E ne ha addirittura paura. Certo, un amore che finisce non è una gioia, ma sotto, dietro, di lato, da tutte le parti insomma, c’è la radice quadrata di quell’amore. La radice quadrata dell’amore siamo noi. La base, l’origine, la ragione di quell’amore che ci ha resi potenzialmente migliori. Ognuno di noi. Ogni singolo uomo, ogni singola donna. Col suo bagaglio di attese e frustrazioni, ma anche di attitudini e di genialità. Siamo noi. E quando un amore finisce, la radice quadrata di ciò che resta sono io, sei tu, e vale sempre la pena.
Va da sé che stare dentro qualcosa che non è amore, ma considerarlo tale, non ha aspetti positivi. Non ti rende migliore, mai. E soprattutto ti confonde su ciò che saresti tu, se quell’amore finisse. Un niente. La radice quadrata di niente.
Tu mi stai ancora guardando. Così te lo dico. Ti dico tutta questa manfrina delle radici quadrate. Sembri una bimba di fronte alla gabbia dei leoni. Hai gli occhi umidi. E mi abbracci di un abbraccio che abbraccia.
Capisco che in fondo vale per tutti la stessa storia: ci innamoriamo per non stare soli, terrorizzati come siamo da una solitudine che confondiamo con un’assenza, salvo poi ritrovarci sovente in mano un rapporto che ci riduce più soli ancora.