Mi ha preso così. Ero a pranzo da mia madre, nella casa in cui ho vissuto fino a qualche anno fa, e avevo la forchetta di fronte alle labbra, col boccone su. Sono rimasto immobile, come se avessi visto qualcosa di impossibile. Un uomo volante. Un marziano. Un alligatore in bicicletta.
Non so come vengano a galla certi pensieri, non ne ho la minima idea. Sono rigurgiti. Quel che so è che, quando mia madre mi ha chiesto Cos’hai?, quando mi ha chiesto A cosa stai pensando?, io per rispondere non ho trovato parole migliori che porle un’altra domanda.
Dove tieni le fotografie di quando eri giovane?
Non ha risposto. Si è alzata. È andata in salone, e dopo pochi minuti mi ha detto Vieni? Le ho trovate. L’ho raggiunta in un attimo. Era seduta a gambe conserte di fronte al mobile basso su cui da sempre è appoggiato il televisore. L’anta era aperta. Lei ha detto Eccole. Ha detto Sono queste, sono tutte qui. Indicava tre valigette 24 ore che teneva accanto, una sull’altra. Valigette di pelle, con fibbie dorate, chiusure con combinazione lasciate aperte.
C’era polvere. Uno strato sottile, accettabile. Lei si è alzata, ha sorriso, poi ha detto Ma che ce devi fa co ste foto, adesso? E io non sapevo cosa risponderle, non sapevo cosa dire, per il semplice motivo che non sapevo cosa ci avrei fatto né come diavolo mi era venuto in mente, né perché. Le ho solo detto, onestamente, Non lo so. Lei mi ha sorriso ancora, e nel suo sorriso, stavolta, ci ho colto la consapevole tenerezza di una madre che capisce molto prima che un figlio sappia. La solerzia dei suoi movimenti alla mia richiesta, del resto, aveva fatto sembrare quella situazione qualcosa di molto simile a un appuntamento.
Ho preso le tre valigette. Pesavano. Pesavano davvero. Dentro ognuna di esse c’era un grosso album rilegato in pelle, monumentale, di quelli coi fogli di carta di riso a separare le fotografie. E poi, oltre gli album, una ventina di piccoli raccoglitori di plastica, di quelli che i negozi di fotografia regalavano per lo sviluppo dei rullini.
Lì, sollevandoli, è avvenuto il cortocircuito. Ho detto: Voglio scansionarle. Digitalizzarle. Altrimenti si rovinano e mi dispiace. Mia madre ha fatto sì con la testa. Siamo tornati a tavola. Il boccone che avevo lasciato in sospeso era ancora sulla forchetta. É rimasto lì. Non avevo più fame.
Trasportandole a casa, giù per le scale, ho sentito il peso di quei ricordi. Lo spazio che occupavano, la consistenza. Ho pensato due cose esatte e sconvolgenti. Innanzitutto che, se avessi deciso io di riempire delle valigie con le foto che fino a quel momento avevo stampato in tutta la mia vita, probabilmente non ne avrei riempita nemmeno metà. E in secondo luogo che, nonostante abbia vissuto praticamente la metà di quanto ha vissuto mia madre, io della mia vita ho una quantità di fotografie enorme, forse cento volte, forse mille volte di più di quante ne abbia avute lei. Forse troppe. Con quelle valigie in mano, in sostanza, ho compreso come sia cambiata negli anni la dimensione del ricordare. E con essa noi.
Cartacea, pesante, inquadrata, esatta (prima). Casuale, eterea, elaborata, volatile (adesso).
Col passare dei minuti, ho avuto un pensiero dopo l’altro. Pensieri compiuti, totali. Trasportavo la sua vita. In quella bracciata, con una fatica relativa, trasportavo tutto ciò che sarebbe rimasto della sua vita, tutto ciò che lei con gli anni avrebbe ricordato sempre meno, fino a dimenticarlo. Era lì. E mi è sembrato davvero poco poter ridurre, sintetizzare, la vita di una persona di sessant’anni a tre valigette di fotografie. Mi è sembrato ingiusto.
Quel pomeriggio e i tre seguenti li ho passati davanti al mio scanner. Vedevo il monitor assumere le sembianze di mio padre, di mia madre, di persone che erano morte, o semplicemente sparite. C’era qualche volto che non conoscevo, qualche luogo che non ricordavo, qualche abbigliamento un po’ ridicolo e qualche espressione che mi ha lasciato sorpreso, eppure mi sono sentito a casa. Nella vita dei miei genitori, anche prima che venissi al mondo io, c’erano tonalità che già conoscevo, e mi davano la sensazione appagante di familiarità.
È stato un lavoro intenso, estenuante, ho creato cartelle dai nomi improbabili per dare a quelle foto disordinate una parvenza di ordine. Ho tagliato i bordi consumati, ho sistemato alcune perdite di colore. E ho pensato che una volta le foto si consumavano, uno le faceva per non dimenticarsi un momento e il tempo le mangiava lo stesso. Bel controsenso. Bella ingiustizia. Alla fine non erano un modo per ricordare qualcosa in eterno, ma solo per rimandarne l’oblio di qualche decina d’anni. Per farlo morire con calma.
E poi a un certo punto ho concluso. Le foto sono finite. Lo scanner ha smesso di sputare ricordi. Mi sono ritrovato una quantità discreta di immagini d’epoca, emozionanti, alcune commoventi, ma nemmeno la metà di quelle del mio ultimo viaggio a Lisbona.
Mi ha inquietato molto tutto questo. Mi sono chiesto se davvero dedichiamo troppo spazio ai ricordi. Se davvero sappiamo decidere cosa merita un posto nella nostra memoria, e cosa no. Se abbiamo l’ansia di ricordare, la smania, come se fosse doveroso farlo il più possibile. Se, insomma, il ricordo è diventato liquido e sfuggente, massivo e invadente. Se ricordare tutto, troppo, e scattare foto a soggetti improbabili, a pranzi e cene, a dettagli inutili, al nulla, equivale in sostanza a non ricordare niente.
Io non ce l’ho tre valigie da dare a mio figlio, e non le avrò. Io non ce l’ho 300 foto che riassumano la mia esistenza. Ne ho infinitamente di più. Ne ho troppe. E proprio per questo ognuna di esse assume un valore trascurabile.
Nelle foto di mia madre erano tutti sempre in posa. E ogni scatto era un evento, un sorriso di gruppo, un’inquadratura precisa. Ogni scatto era scelta esatta, selezione, desiderio. Ho guardato il mio hard disk esterno. Traboccava di fotografie che non vedevo. Mi è venuta voglia di sfogliarlo, di aprirlo, di annusarlo. Mi è venuta voglia di riassumerlo in poche foto epocali. Mi è venuta voglia di smarrirlo. Formattarlo.
Dove li metto tutti questi ricordi? Questo è il problema. A che servono i ricordi che non ho tempo di ricordare, di rivedere, di apprezzare? Che fine fanno? Muoiono prima? O non vivono affatto?
Mentre riponevo le foto nelle valigie, mi sono accorto che dentro ne era rimasta una, mi era sfuggita. Era quadrata. Grande come un sottoboccale di birra.
Esterno giorno. I miei genitori. Probabilmente nel giardino di casa nostra, ma non ne ho certezza. Mia madre è incinta. Ha una pancia esagerata e un vestito rosso, sblusato sulle cosce. Mio padre, di fronte a lei, gesticola qualcosa. Lo scatto li ha colti di sorpresa mentre ridevano di profilo. Faccio per riporre la foto e mi accorgo che dietro c’è scritto qualcosa a penna. La data (una settimana prima della mia nascita), e poi, soltanto, “Attesa nel giardino di casa”. La calligrafia è quella di mio padre. I colori sono sbiaditi, lo scotch dietro è ingiallito e ha perso forza adesiva. Era attaccata da qualche parte, fino a poco fa.
Riapro gli album, li sfoglio con calma. E dopo qualche minuto lo trovo, eccolo lì il punto dove i miei genitori l’avevano riposta. C’è l’alone del nastro adesivo. È una pagina qualunque, in mezzo a tanti altri piccoli ricordi sensati. Ingredienti sani di una vita delicata, forse solo più coerente col nostro modo di viverla. Meno affollata, meno rumorosa.
La rimetto al suo posto. Con dolcezza. Come si detergono le ferite aperte. E comprendo che il senso di tutto questo è solo uno: affrancarmi dal mio passato. Farmi contagiare dalla quiete di un tempo che in qualche modo contengo senza averlo vissuto. Un tempo docile, esatto, sfumato nel fondo della memoria.
Talvolta ci sono alberi piantati per necessità su terrazzamenti a strapiombo sul mare, o su un burrone, o su un crinale scosceso. Ogni autunno occorre verificare la tenuta delle radici. Che abbiano preso bene il terreno, l’abbiano “agganciato”, prima dei venti burrascosi dell’inverno.
Quegli alberi siamo noi. E questo ho fatto. Sono pronto.
…È proprio la nostra fretta qotidiana, la nostra bulimia di pensieri ed azioni, la nostra smania del tempo che fugge e che viviamo sempre meno a farci vivere in modo esagerato la voglia di ricordare fermando il tempo. Come se le foto fossero garanzia di esserci stati per davvero. Le foto imprigionano il tempo che passa . Lo bloccano. Lo fanno restare. A noi fugge tutto, e per contro spasmodicamente diamo un ricordo a tutto quel che viviamo e non. I nostri genitori sono quel seme che dentro di noi deve esistere, crescere. E maturare. E divenire albero.
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L’errore che facciamo davvero spesso è pensare di poter prescindere da tante, troppe cose. Non esiste qualcosa di vivo che non affondi radici, reali o immaginarie, in qualcos’altro.
Eppure fingiamo di essere indipendenti dal passato, dai momenti in cui qualcuno ci coltivava con cura. Talvolta ce ne vergogniamo, talvolta ci sembra solo un tempo così lontano da cui è necessario affrancarci per diventare davvero uomini. E così è, ma si diventa ciò che si contiene, si sboccia, solo se non si rinnegano le radici che ci hanno reso certi fiori, e non altri. Questo credo. E questo pezzo parla di una ricerca spasmodica di quelle radici dimenticate, prima che spariscano per sempre. Grazie delle parole.
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