Urlano da tutte le parti. Non capisco neppure più bene cosa. Non capisco perché, non capisco a che scopo, con quale necessità.
Non c’è riposo, non c’è più possibilità di esistere e al tempo stesso non essere meccanismo di questa giostra di confusione. Il mondo non conosce più il silenzio. Lo ha scordato, ripudiato, confuso con la morte, o con la vita becera, che non merita quasi di essere vissuta.
Cos’è, oggi, del resto, il silenzio? Che rappresenta ancora?
Conosco persone che non conoscono il silenzio. Ne hanno paura. E non ne parlano – non sanno come parlarne. Hanno dimenticato quando a suonare erano i citofoni e non i cellulari, ci si incontrava, ci si stringeva la mani, e c’erano tante di quelle cose da dire, perché, nel frattempo, nessun social network ci aveva informato delle nostre reciproche vite. Questa mi sembra una differenza sostanziale. Ci si raccontava quando era tempo di raccontarsi, non in un flusso continuo ed indistinto, ci si sceglieva come destinatari delle nostre parole, in un tempo esatto, in un luogo esatto, occhi a occhi, bocca a bocca.
Oggi le parole le abbandoniamo su pagine elettroniche, come questa, sperando che qualcuno le legga, e le comprenda, e ci comprenda. E andiamo a finire in un cortocircuito pericoloso. Un timore che avverto chiaramente. Diventare parte della giostra, urlare come tutti, dire dire dire, senza per questo aver trasmesso noi stessi.
Siamo tutti megafoni in un mondo di sordi.
Non so bene come, eppure credo che la saturazione sia qualcosa di simile al vuoto, ma molto più crudele, perché illude di non farne parte. Forse è davvero così. Non avere respiro è come avere il fiatone. Non avere mangiato è come abbuffarsi. Il vuoto e il pieno si somigliano. Eccesso e assenza. Caos e silenzio.
Tutti facciamo qualcosa che assomiglia ad una comunicazione, ma non comunichiamo. E non dipende più da noi, dipende dal fatto che nessuno è più disposto a riceverla, a riceverci, ad accoglierci, troppo preso com’è a urlare di sé. E in questo modo smettiamo di essere uno, noi, e diventiamo qualcosa di indistinto. Non abbiamo più un nome. Non abbiamo più occhi. Non abbiamo più cuore.
Il silenzio è stella cometa, quadrifoglio, rarità. È già una fortuna saperselo tenere addosso. Sapersi creare il proprio dentro, sotto la pelle, e alimentarlo. Sapersi ascoltare, sapersi coltivare, diventare silenzio noi. Bisognerebbe capire come esportarlo, come farlo tornare di moda.
È una fortuna parlarne ancora. Ricordare questa parola. Riconoscerla. Averne nostalgia.
Silenzio. Ssssssst. Silenzio.
E io? Come posso gestire la malinconia di non avvertirlo più tra le eventualità di questa vita? Come posso farne davvero a meno? Ci riesco?
Sssssssssst.