
Sto tornando a casa. Mi aspettano per festeggiare i miei quarant’anni, abbasso gli occhi per un istante, mi distraggo il tempo che basta per non riuscire ad evitare la macchina davanti a me.
Non è un grande botto, ma ci siamo presi.
Prendo il CID dal cassetto, imprecando. Ci mancava solo questa.
Certo, succede. Certo, l’importante è che non ci si sia fatti male. Ma proprio oggi! Prendo il cellulare, mando un messaggino alla mia compagna, tarderò un po’. Sollevo gli occhi dallo schermo e mi trovo davanti un trentenne vestito sportivo, coi capelli arruffati, i bermuda con le tasche, un ciondolo al petto. Scende trafelato, è di corsa, molto più di me. Resto a guardarlo un istante, prima di parlargli, lui lo nota e mi chiede: «Ci conosciamo?»
Faccio di no con la testa ma ho capito chi è. Sono io. Dieci anni fa, esatti.
Lui non può riconoscermi, io non ho dubbi. Gli passo il CID, lui lo afferra e comincia a compilarlo, senza nemmeno leggerlo. È accelerato, si nota da come parla, da come si muove. Pare che stia in ritardo a prescindere dalla velocità con cui viva. Temo possa infartare da un momento all’altro.
Io non ho ancora detto nulla, lui solleva lo sguardo dal cofano della mia macchina, dove si è appoggiato per scrivere e mi dice: «Posso solo chiederle se possiamo sbrigarci? Sa, oggi è il mio compleanno.»
«Ah, davvero? Anche il mio.»
Sgrana gli occhi. «Noooo, non ci posso credere. Dice davvero?»
«Sì, faccio quarant’anni.»
«Io trenta. Ma questa coincidenza è davvero incredibile! Ci scriverò sopra qualcosa, prima o poi.»
«Perché dici così? Scrivi?»
«Ho pubblicato delle cose, dei romanzi, ma sono prima di tutto un giornalista.»
«Ne hai fatte di cose per avere solo trent’anni…»
«Sì, ho fatto duemila cose, sto sempre a palla guarda, non c’ho un attimo.»
«E rilassati, ogni tanto…»
Continui a scrivere i tuoi dati, io ti osservo.
«Ma no, non mi va,» mi dici. «C’ho un sacco di cose da fare, un sacco di cose che amo. Non voglio trascurarne nessuna.»
«Così però trascuri te stesso, e magari le persone che ami.»
«Forse un po’, ma io sono così. Non posso mica cambiare per gli altri…», dici porgendomi la penna.
«Io ero come te sai?»
«Eri?»
«Sì. Ero.»
«E poi?»
«Poi ho compreso che fare tutto è molto peggio che fare qualcosa. E che trascurare chi ami è come trascurare te stesso, uguale uguale.»
Ci pensi. Dalla tua auto sento la voce di Vecchioni cantare “Luci a San Siro”.
«Forse è come dici te…»
«Spesso ci rifugiamo nelle cose pratiche per non fermarci a respirare, per non affrontare quel che diventerebbe evidente solo stando fermi. Tipo le trottole, che pensano di sapere stare in piedi, invece poi si fermano e cadono giù.»
Sollevi lo sguardo. «Eh? Scusa non ti ho ascoltato, stavo firmando qua…» dici, e mi porgi il foglio.
«Guarda, devi riempire pure qua e qua.»
«Ah, non l’avevo visto.»
«Perché vai di corsa. Troppo…»
«Mi aspettano per una cena, non c’ho tempo. Devo passà da mi madre, poi andà a prendere la mia compagna, poi arrivare al mare, mangiare, passeggiare e tornare a casa con lei. Mi capisci no?»
«Detta così, però sembra una tortura. Sono le 19, come fai a fare tutto?»
«Ce la faccio, ce la faccio. Basta che te sbrighi.»
Prendo il foglio, lo riempio campo per campo. Con la coda dell’occhio ti vedo tirare fuori il cellulare dalla tasca ogni 30 secondi, sbloccarlo, scrivere, poi riporlo in tasca. Guardarti intorno, fissare un punto poi muoverti a scatti. Se non ti conoscessi così bene, direi che ti sei drogato. Sembri alterato.
«…che poi…» dici a un certo punto, poco prima che io firmi, «volevo pure scrivere qualcosa oggi, ma non ho trovato un attimo, ma come se fa? Manco il giorno del compleanno mio riesco a mettermi al computer a buttare giù qualche pensiero…»
Sorrido, ma tu non lo vedi. «E che hai fatto da stamattina?»
«Lascia perde. Lasciamo proprio perde. Duemila impicci a lavoro. Ho cambiato il turno di pomeriggio con quello della mattina, mi sono alzato all’alba e ora sto a pezzi…»
«Non potevi prenderti un giorno di ferie?» ti chiedo.
«Ma no, me le tengo per quando parto…»
«Io ho preso un giorno di ferie. È il mio compleanno! Volevo godermi la giornata.»
«Forse hai ragione, magari l’anno prossimo farò lo stesso. Anche perché dopo il lavoro volevo riposare un po’, ma non ci sono riuscito. Duemila cose, telefonate, messaggi, un saluto a mia nonna, un caffè con un caro amico, ritiro della torta in pasticceria, …»
«Nemmeno il giorno del tuo compleanno sei riuscito a fare quello che desideravi?»
«Vista così è un po’ triste…»
«Beh, sicuramente dovevi tutelare di più i tuoi desideri,» dico, mentre ti restituisco la copia del CID che ho finito di compilare e che tu pieghi in fretta e infili in tasca.
«Su questo hai ragione, dico sempre sì e non penso mai a me. Non penso mai che le 24 ore di una giornata finiscano, penso di poterci sempre infilare un impegno in più senza avere problemi.»
«…eh, ma se non ci pensi tu a te, chi ci pensa?»
«Questo è vero. Nessuno.»
«E allora?»
«Allora diventerà il mio motto,» dici sorridendo.
«Quale?»
«Quello di cui parlavo anche con la mia psicoterapeuta, giorni fa. Non posso fare, sempre, il padre di tutti. Devo prendermi cura di me, se non lo faccio io, chi lo fa?»
Improvvisamente non sembri più essere in ritardo. Ti metti le mani in tasca, sollevi un po’ le spalle, guardi nel vuoto.
«Non devi scappare? Abbiamo finito, puoi correre via,» ti dico, a un certo punto.
«Vado vado, stavo solo pensando una cosa…» dici, arricciando le labbra.
«Che?»
«Che io su questo incontro ci scriverò un racconto, prima o poi.»
Sorrido, è tutto così incredibile: le mie parole, il nostro incontro, la tua fretta che si placa. È un cerchio che si chiude. Sappiamo tutti e due che non basta un incontro per cambiare le cose, ma sappiamo anche che la serenità è un percorso e che i percorsi, da qualche parte, cominciano sempre.
Così rispondo: «Ma sì, certo che lo scriverai, magari proprio fra dieci anni.»