C’è un albero di fronte casa di mia madre
È piccolo, più di tanto non cresce.
Ingiallisce, in tonalità infinite
ma non perde foglie,
non ne ho mai raccolta una.
Se le tiene addosso, anche quelle morte.
Rifiuta l’autunno, per quel che può.
Le stagioni non gli interessano,
se le fa da sé.
Anche cento in un giorno solo.
Ho sempre pensato che gli somiglio.
So essere sole alto nelle sciagure.
E poi diluvio quando tutti ridono, d’estate.
Sono un cortocircuito.
Risulto familiare agli sconosciuti
E inconoscibile agli amici di una vita.
Una volta, uno di loro mi ha detto:
“Tu sei così, sembri di tutti,
invece sei riservato.
Hai sempre vissuto a un passo da tutti noi”
E io non ho capito.
Giuro.
Poi mi ci sono sentito
(corpuscolare, disgiunto)
e ho capito.
Sono stato parziale, in quasi tutto.
Ho tenuto addosso foglie morte.
Hanno arginato le nuove.
I giochi di mia figlia la aspettano tornare.
Immobili.
Sto diventando così.
Senza di lei non suono, spengo le lucine.
Dicono: “è un momento, vola via”.
“Ok, ma poi?”
“Lo rimpiangerai”.
“Chi?”
“Tu, chi sennò?”
“Io?”
“Sì”
“No, io no.”
Io non so rimpiangere.
Provo nostalgia, certo.
Talvolta paralizzante.
Il rimpianto no.
Una vicina urla alla figlia di non urlare.
Io penso che vorrei insegnarle il contrario:
Il silenzio, col silenzio.
L’intralcio delle foglie morte.
La bellezza delle stagioni di tutti.