Le persone sono luoghi. Le abitiamo allo stesso modo.
Dapprima le esploriamo, cercando appigli alle nostre necessità e ai nostri desideri, ci camminiamo intorno, senza invaderle, senza toccarle. Restiamo a un palmo dai loro recinti, magari un solo giorno, magari anni.
Aspettiamo che ci sia un motivo, o un’occasione, per visitarle davvero. Entrarci dentro.
A volte aspettiamo che ci aprano, altre il coraggio di scavalcare. Aspettiamo, soprattutto, di capire che valga la pena insistere, in mezzo a tutti i luoghi del mondo, per quel luogo lì. Perché quel luogo che abbiamo incontrato ci sembra la casa adatta a noi, innanzitutto, una casa che resiste agli uragani, ed è calda, ed è illuminata in quel modo che amiamo, proprio in quel modo lì, invece che in un altro. E ha spazi che riusciamo a capire, geografie che ci fanno sorridere, finestre da cui non entra solo la luce ma esce il buio che a volte abbiamo dentro senza sapere perché.
Non sono luoghi in senso stretto le persone. Un luogo è una stanza, un chiostro, una piazza, un cortile. Ha confini esatti entro cui si chiama in quel modo. Le persone no. Continuano fuori di loro. Le persone sono le sensazioni che lasciano, le gioie che regalano, i dolori che abbandonano. Le persone sono tutte eccezioni, tutte doni, tutte soprattutto punto di incontro di tante altre persone – un luogo, in questo senso – e incidenza di sogni, carezze e possibilità.
Le persone sono coordinate emotive esatte. Ogni persona ne ha di sue. Un meridiano e un parallelo che le appartengono in modo univoco. Che sono l’identità esatta che la contraddistingue.
Ogni incontro è un viaggio esotico.
Si dice che il luogo non faccia molto. Che quando sei sereno o disperato, in fondo lo sei ovunque. E che siamo noi che coloriamo i luoghi coi colori della nostra anima. Può darsi. Ma con le persone non funziona così. Abitare quella giusta è trampolino. Quella sbagliata zavorra. E ci si incontra, ci si sfiora soprattutto. Senza sapere nulla della quasi totalità delle persone che ci vivono accanto. Ci si limita umanamente a pochi.
Poi succede che in uno di quei luoghi, d’un tratto, vogliamo restare. Stabilirci. Di solito si tratta di una persona che ha la forza di cambiare il nostro modo di essere luoghi a nostra volta. Che ci rende ancora più consapevoli del nostro esistere. Qualcuno che ridefinisce le direzioni che diamo alla nostra vita. I luoghi che siamo, quelli che vorremmo diventare. Ci scopre, ci svela.
Non è facile incontrarsi, è raro. Ed è ancora meno facile accettarsi. Siamo così gelosi di noi – che idiozia – al punto da non abbandonare quasi mai il nostro modo di pensare. Ci sentiamo traditori, vili, infami. Finché, all’improvviso, accanto a qualcuno, in quel luogo esatto che lui è, ci sorprendiamo cambiati e ci chiediamo: quando è successo? E come? Io sono sempre stato qui.
Diventiamo un altro dei luoghi che siamo. Un luogo migliore. Insieme. Siamo simili. Splendidamente, teneramente simili.
Ecco, tra noi è stato così. Due bei posti che si incontrano. In momenti incredibili.
Tu piena di muri indistruttibili e delusioni profonde, io pieno di parole irrisolte e equilibri instabili. Tra noi soprattutto risate, all’inizio. Ci siamo guardati a lungo da fuori, ma poi è successo qualcosa. Non so cosa, non l’ho capito, ma è successo quando il tuo muro si è incrinato, il mio equilibrio si è spezzato, e siamo finiti addosso. Uno dentro l’altro, ad abitarci l’anima come fosse la cosa più banale del mondo. Come se all’improvviso non ci fosse altro da fare che viverci a perdifiato, senza freni.
Ci siamo contaminati fin dentro le più piccole malinconie. Abbiamo parlato fino a notte fonda, ci siamo confidati la vita, abbiamo fatto l’amore con educata passione, siamo stati speranza e gioia, sincero supporto e àncora per le folate di vento forte. Fari e porti. Case e balconi. Ci siamo insegnati la vita, senza pretese, con gli occhi, con le mani, con le carezze alla schiena, con i baci che non sapevano smettere. Coi piatti di pasta rubati e la dieta che deve sempre cominciare. Con la musica cantata a squarciagola sull’autostrada, coi gemiti soffocati, con i libri e i peli di quel cagnolino mai domo che ci saltava in mezzo geloso di noi, con le parole sempre nuove a sostenere qualcosa che non sa stare in piedi, che è cucciolo, e non deve correre.
Qualcosa che va dosato perché può essere tutto. E al tutto ci si deve abituare. E si deve avere anche il coraggio e il tempo di sceglierlo.
Non abbiamo capito l’attesa. Nessuno dei due. Siamo stati due posti frenetici. Neonati che vogliono gareggiare ai cento metri. Non abbiamo capito che aspettare vale come vivere, certe volte. Perché smettere di farlo equivale a perdersi.
Mi piace pensare che esistano luoghi asincroni. Dove si arriva troppo presto o troppo tardi, quando ancora sono in costruzione, o quando sono già crollati e non hanno la forza di rialzarsi. Mi piace pensare che esistano luoghi che non capiamo, da cui fuggiamo per viltà o per incomprensione o per tutela di noi stessi.
E ci sta, è umano, nessuno ha colpe. Di fronte a un amore così le colpe non esistono mai.
Però, quel che mi piace pensare ancor di più è che tra noi quel luogo non teme il tempo, e impari a darsi tempo. Viviamo immersi nella frenesia di dare un nome alle cose, e spesso dimentichiamo la fortuna di viverle. Non facciamo lo stesso errore. Non facciamolo e teniamoci stretti, nonostante la frenesia che sembra travolgerci.
Le persone sono luoghi. Alcune di loro, forse una in una vita, diventano nuovi habitat. Il posto migliore, il posto felice. Dobbiamo solo imparare ad abitarle.
Tu e il mio posto felice siete la stessa cosa.