Assolo

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Foto di E. Cristofanon

Stavo sempre in compagnia da bambino.

Nessun attimo nei miei ricordi è davvero spopolato, inabitato, deserto. Interazione continua, continui abbracci, sorrisi, corse a perdifiato dietro un pallone mai troppo veloce, troppo bagnato, troppo leggero. Intorno centinaia di amici, confusione, una camera piena di gente, un indirizzo affollato, un tavolino di begli sguardi, musica, parole. Un’infanzia corposa, senza vuoti.

È stato bello. Davvero. Una storia raccontata insieme, mentre le cose accadevano. Una sincronia tra convivenza e vita. Un romanzo di pagine bianche, che ognuno scriveva da sé, e insieme agli altri, e insieme a tutti. Non è possibile raccontare la mia vita senza tantissime persone, veramente un’infinità, e questo, oggi, mi rende felice, come se, in un certo modo, mi desse il polso di cosa significhi restare, adattarsi quando serve, rifiutare quando è il caso, battersi per qualcosa, rincorrere il proprio senso.

Poi è successo qualcosa. Non a me. A tutti. E succede sempre, mi dicono. E succede a un certo punto. Ci si rivolge a sé. Ci si sposta verso dentro. Ci si inoltra in quei corridoi che sono parte fondante di ciò che siamo. È un viaggio, un viaggio vero, fatto di cadute e di rinunce, di lacrime e di enormi sorprese. Ci si ritrova in mano qualcosa di incredibile e pian piano si impara a chiamarlo vita, si impara a considerarlo un dono, a gestirlo come una ricchezza deperibile. Si riconosce. Si sente. È un momento. Il momento unico di ognuno di noi. Ed è quello in cui afferriamo al volo l’idea che la vita non è solo un dono, non è solo splendida, non è solo gestibile, ma è nostra soprattutto. Soprattutto nostra.

E lì accade un cortocircuito epocale. Accade a tutti, dicono. Accade per la prima volta il pensiero di cosa fare della nostra esistenza. In fondo, la vita è soprattutto cosa facciamo della vita. Non le idee strette, ma dove ci portano. Non i progetti, ma i risultati. Non gli esercizi, gli esami.

Finché sei in mezzo al gruppo, questa responsabilità del futuro non la senti. Vuoi fare l’astronauta, o il calciatore, o salvare le balene con Green Peace. Poi no. A un certo punto sai che non sarai mai nulla di questo e il futuro comincia a diventare sudore, impegno, ma soprattutto scelta. Scelta di non. Scelta di rinunciare a qualcosa per nobilitarne altre.

Dove vanno a finire tutti gli amici di un tempo? Sono lì, siamo qui, ci siamo tutti. Eppure ognuno ha meno tempo, ha meno energie, ha meno calore da condividere. Però ci siamo. Eccoci. Eppure non ci vediamo. Vediamoci presto, però! Mi raccomando! Ma certo, prestissimo. E poi…

E ci si perde restando accanto. Una sorta di addio fatto di tante piccole prossimità insignificanti. Un addio scorretto, che si traveste da poi. Tutto questo mi ha sempre riempito di nostalgia, come se non vedere i vecchi amici equivalesse a smarrire il tempo che con loro ho condiviso e mi ha reso così come sono. Come se non vedersi più fosse sinonimo di disprezzo, o disamore, o anche semplicemente di perdita di confidenza. Ci ho sofferto. Ho lottato. Ho cercato ritagli di vita da dare a chiunque, senza per questo riuscire a darli a nessuno.

Per anni non ho fatto altro. Non riuscivo ad accettare che si cambiasse in quel modo. Che il cambiamento, il crescere, fosse soprattutto perdere qualcosa, qualcuno, continuamente. Assottigliare il proprio portato sociale e amicale fino a sorprendersi soli, soprattutto e tanto per cominciare, e poi tutto il resto.

Ho rischiato di non cogliere tutto questo, non lo nego. Ho rischiato di prendermela con me stesso, con tutti quanti, con la vita. Ho rischiato di sentirmi trascurato e trascurante, di smarrire il desiderio di assaggiare tutto, e assaggiarlo dentro.

Poi non lo so che cosa diavolo è successo. Ho cominciato a scrivere. A stare in silenzio. A stare con me. Ricordo solo un soffitto bianco, il mio corpo sdraiato su un letto singolo, qualche musica, una finestra aperta. Ricordo di aver pensato che raggiungere la consapevolezza di ciò che si vuole per sé, di ciò che si è da soli, in una stanza bianca, vuota, muta, è un punto di partenza. Scoprire se stessi non è un ripiego, è un risultato. E non mi sentivo più solo, non mi sentivo più senza qualcuno, ma con qualcuno. È in quel momento che scopri quanto spessore c’è, quanto terreno puoi coltivare, se hai pazienza e magnifico stupore.

Il silenzio, quel silenzio, fecondo, è stato terapia. Quella solitudine esplorazione.

Dicono che quando suona un’orchestra le piccole imperfezioni, le stoccate, le imprecisioni si coprono a vicenda, senza neanche volerlo. Poi parte l’assolo, e durante l’assolo sei tu.

L’assolo è confessione. È nudità. Non è facile sopportarlo, superarlo, impararlo.

Non è per tutti. Dicono.

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