C’era un ponte, sotto di noi, si teneva in piedi a stento. Un vento fresco intorno, e le prime fotografie, chiari tentativi per accorgersi di come ci si sorride accanto, immagini integre, che contengono ogni dettaglio possibile.
Hai scelto un foulard, all’improvviso, l’hai fatto scivolare intorno al collo, e io ti ho guardata farlo. Mi è sembrato un gesto bello, intimo, completo, uno di quei gesti che descrivono una persona più del nome e cognome.
Eri già una gioia, con quel sorriso concepito senza ombre, spontaneo, naturale. Guardavi altrove per non guardare me, sapevi che dopo non sarebbe stato prima. Più. Tutto sembrava dipinto. Non avrei saputo sceglierlo meglio. Costruirlo, inventarlo, colorarlo meglio di così. Eri tu, e eri lì. E a me sembrava già abbastanza. In realtà, mancava qualcosa. Mi sono avvicinato, ti ho sciolto il foulard e te l’ho riannodato piano, un centimetro per volta, come mi sembrava giusto, come volevo io. Ho dato al tuo collo la forma che mi sembrava sua. Sono rimasto a guardarti arrossire come un tramonto. Lentamente. Avevi la bellezza dei fiori, i primi giorni di primavera, quando nemmeno loro immaginano cosa sanno diventare. Cosa possono. Mi sono appoggiato alle tue labbra, appesantito, claudicante, pieno di rumori dentro. Tu i miei rumori sembravi non sentirli, eri silenzio, eri quiete, e non sembravi vera. Avevi un modo inconsapevole di stare in equilibrio. Ci stavi, e ti lasciavi ammirare nella tua altalena elegante e mai pericolosa.
Ci ripenso oggi, ed è incredibile dopo questo tempo pregno di ragnatele e fantasmi, pieno di errori e di alibi, di inciampi e di addii, accorgermi che era esattamente la prima impressione la più adatta a descriverti. Questo mi fa paura, una paura per la quale provo un senso più simile alla riverenza. La capacità che abbiamo, talvolta, di cogliere le frequenze impercettibili, impararle a memoria, farne architrave della nostra vita mi lascia senza fiato.
C’ho messo anni. Cazzo. Mica ore, mica giorni. C’ho messo anni a capire che tu, quei rumori, quei cigolii, quelle urla che avevo dentro li sentivi eccome, ma al contrario di me sapevi che prima o poi sarebbero passati. Ne eri certa. Ne eri motore. Hai creduto in questa calma fertile prima di me. In questa tavolozza di colori infiniti che sono infiniti e non bastano a descriverci. Hai avuto lo sguardo acuto di chi non può certo conoscere il futuro, ma sa come costruirlo per farlo aderire ai suoi sogni.
Abbiamo parlato a lungo di cosa succede dentro, quando si interrompe la comunicazione con noi stessi. Di dove si rischia di finire se non si dà ascolto alla propria natura. Abbiamo parlato di lacrime, e le abbiamo piante. Abbiamo raddrizzato denti, perso chili, spostato letti, imparato parole comuni di un vocabolario che nessuno conosceva ancora. O forse sì, tu sì. Io no.
I rumori erano lì, ma talvolta facevano meno rumore. L’amore guarisce, ripetevi, quando faceva male tutto quanto, persino respirare. E io non potevo, non credevo, non volevo, non ero. Io volevo guarire, ma non sapevo di cosa ero ammalato. Avevo fretta, e le gambe troppo stanche, troppo esili, incerte, approssimative. Avevo l’affanno, avevo le mani deboli che non sapevano più afferrare, gli occhi appannati come i vetri delle auto di chi fa l’amore. Avevo nuvole, più che altro avevo nuvole dentro.
Io non so come ci si ammala, ci ho pensato ogni giorno di questi lunghi anni. Com’è che succede? Come ci si finisce dentro? Io non lo so cosa avevo. Forse l’ho pure capito, ma non voglio certo parlarne qui. Qui posso dire che a3vevi ragione, l’amore guarisce davvero, non è esagerato ribadirlo. E non si tratta solo dell’amore romantico per qualcuno che ci sappia contraccambiare, si tratta soprattutto dell’amore per se stessi. Quello guarisce come nient’altro, riporta a galla, deterge, colora, accende, ravviva. Avevi ragione.
E ti sognavo, ti sogno, spesso. Mi ricordo, una mattina dopo una notte quasi insonne, poco tempo fa, mi sono svegliato bene. Non ero stanco, e tu eri lì, che riposavi smarrita in quei luoghi tutti strambi e genuini che di sicuro arredi coi sogni la notte. È stato lì, in quel frammento di attimo, che ho sentito un clic, qualcosa dentro, e ho trovato il senso. Era accanto a noi.
Durante la notte ti avevo sognata. Avevi un banco di spezie in qualche mercato di una città d’oriente. Camminando, ti ho riconosciuta. Avevamo qualche anno in più, io la testa bianca, tu un viso da signora dei primi del secolo scorso, sulle cosce un grembiule sporco. Non ci vedevamo da tempo. E ci siamo abbracciati a lungo, in uno di quegli abbracci che raccontano il tempo passato lontani. Mi hai chiesto come stavo, e io ho detto la verità, per una volta: Sto male, non so cos’ho, non lo so, giuro, io non lo so, ma sto male. Ti sei guardata intorno, ha preso una bustina di carta bianca e dentro ci hai messo tre quattro polverine colorate che avevi davanti, hai mescolato bene, e mi hai detto: Ecco, per te. Ho preso in mano la busta, ti ho chiesto: Cos’è? Hai sorriso, di quel sorriso senza ombre del primo giorno, e io non ho potuto far altro che sentirmi a casa, poi hai risposto: L’antidoto. Con questo starai meglio vedrai. Ho preso la busta, tu volevi dire altro e non lo hai fatto. Allora ho parlato io: Se sapevo che vendevi antidoti, ti avrei cercata molto prima. Hai sorriso ancora, saresti voluta sparire, e invece poi sei rimasta lì, hai detto: Non li vendo, ma con te funzionerà vedrai. Non conta se ci si ammala, e quanto, e di cosa. Si ammalano tutti prima o poi. Qualcuno vorrebbe farci credere di no, ma ci vive soltanto sopra, e si aggrava. E si ricorda di voler guarire quando è tardi, quando è moribondo. Non conta ammalarsi, conta solo come se ne viene via. Conta solo come si guarisce.
Ti ho preso le mani. Tra noi un arco, uno spazio curvo, una culla, qualcosa che raccoglieva quel che eravamo stati. Intorno il caos dei mercati affollati, le voci, le urla, i rumori, e poi noi, in silenzio, a dirci tutto.
Mi sono seduto lì accanto a te. Non abbiamo ricordato, in nessun modo, il motivo che ci aveva diviso. Importa sempre poco quando si è uno accanto all’altro. Ho aperto la busta, ci ho sbirciato dentro. Un’accozzaglia di colori e di odori. E mi è venuto da ridere, da ridere tanto, per quella sciocchezza dell’antidoto, della capacità che avrebbe avuto di farmi rinsavire.
Mentre facevo questo pensiero, però, e ridevo, non mi sono per niente accorto di come stessi già iniziando a guarire.
Anche tu probabilmente sentivi i dolori sordi dell’altro, si guarisce insieme ricorda. Si cresce tenendosi stretti nel petto, perchè non è mai tardi per affrontare la montagna. L’antidoto è magia, è progetto, è alba e tramonto insieme.
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Mi hai commosso. L’antidoto è alba e tramonto insieme. Applauso.
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