E ogni volta, a un certo punto, ho sentito bussare.
È stato sempre così. Ero lì, a casa mia, tra le mie cose, e toc toc, ecco quel suono che non ha eguali, quel breve rumore che disturba, o soltanto inquieta, o magari nulla. Ero intento ad altro, ero altrove, come succede quando la vita distrae, allontana. Toc toc, e torni dov’è il tuo corpo, in un attimo.
E ogni volta avevo le luci accese, non le spengo mai. Ed era tardi, era notte. Ogni volta era notte in maniera diversa, ma comunque e semplicemente notte. Io ci mettevo sempre qualche secondo a capire che qualcuno avesse bussato davvero. Non l’ho mai ammesso, ma mi piaceva quel piccolo istante di sconcerto nel quale la mia mente diventava campo di battaglia di ipotesi assurde, di congetture improbabili, di timori improvvisi. Mi alzavo dalla sedia su cui rincorrevo parole, o da qualche sogno insperato, e colmavo lo spazio che mi separava dalla porta con poca agilità, tra le sabbie mobili di una situazione che non aveva alcun doppiofondo, e nessun’altra strategia da tentare. Era diventata solo quello: un toc toc su una porta, e una porta che si apriva nuovamente, ad accogliere, ad ospitare.
Contavo i passi. E ad ogni passo io lo sapevo che non avrei dovuto aprire. Dentro avevo coltivato un silenzio mio, un così bel posto, un giardino che rifioriva lentamente, quanto lentamente aveva smesso di appassire. Ad ogni passo dicevo No, ad ogni passo dicevo Stavolta non apro, poi afferravo quella maniglia pesante e la tiravo a me. Annullando lo spazio che era intercorso tra noi. Annullando in un baleno la distanza di mesi, dimenticando persino le ragioni di una lontananza che sembrava d’un tratto esagerata, figlia di un orgoglio inutile e meschino. Controproducente.
E ogni volta che la lasciavo entrare, davvero ogni volta, facevo questo pensiero esatto. Siamo luoghi, innanzitutto. Tutti quanti. Siamo luoghi coi nostri recinti, i nostri fossati, le nostre segrete. Siamo luoghi con i nostri accessi e le nostre mura, le nostre prigioni e i nostri tesori. Decidiamo noi chi far entrare, e come, e quanto, e fino a dove. Dobbiamo impararci, imparare a conoscerci, perché certi muri sono fogli di carta, certi fossati sono tappeti, e certe porte non sappiamo chiuderle. Ci sentiamo al sicuro, e invece siamo indifesi.
E ogni volta che aprivo quella porta mi dicevo: tanto vale smontarla dai cardini, tanto non serve a un cazzo. E ogni volta tornavo ad ascoltare. Non credo ci sia qualcosa di più bello: tornare ad ascoltare dopo un silenzio totale, dopo un disinteresse, dopo un distacco. Perché ascoltare a cuore aperto è un dono molto raro, e aprire nuovamente il cuore a chi ci ha imperversato senza alcun ritegno è un atto di fiducia sterminato. Qualcuno, in realtà, parla più concretamente di una stronzata.
Comunque, ogni volta, ci siamo seduti di fronte. Abbiamo bevuto qualcosa di caldo. Abbiamo aspettato le parole che ognuno teneva addosso, riposte nelle tasche più improbabili. Abbiamo iniziato a parlare. Non importava tanto chi cominciasse, e perfino cosa dicesse. Non contava quasi neppure che stessimo parlando. Le parole, a un certo punto non servono più. Finiscono. Si svuotano di senso e di portata semantica. Quel che contava era essere lì, nuovamente, essere presenti. Ma si trattava di essere tornati indietro senza aver cambiato nulla. Riprovare a cucinare la stessa cosa senza cambiare ingredienti. Ripetere un esperimento con le stesse identiche tempistiche e modalità. In sostanza, si trattava di attendere nuovamente l’ennesimo fallimento.
Noi lo dimentichiamo, sempre, ma una volta dentro, le cose cambiano in fretta. Una volta dentro si ricomincia da dove avevamo interrotto. Non c’è scampo. Il confine è quel toc toc. Lì si sceglie. O di non bussare, o di non aprire. Qualsiasi altra scelta condurrà logicamente allo stesso epilogo, e a una perenne abitudine di ritornare che non è amore, non è attrazione, non è nulla.
In realtà, esisterebbe anche un’altra strada, un tentativo, ma sembra così sciocco parlarne. È sciocco perché presuppone due persone mature, in grado di mettersi in gioco, analizzarsi, chiedere scusa, togliersi le porte di dosso, abbattere i muri, e lasciare l’altra persona non solo libera di entrare e uscire e essere se stessa anche nelle cose più piccole della vita, ma amarla per questo. Amarla sempre. Sostenerla ovunque, comunque. Essere felice se lei è felice, dannarsi per darle una mano, asciugarle le lacrime quando piange. Senza egoismi, o falsi altruismi, che è ancora peggio. Senza punzecchiate, palcoscenici, piedistalli, senza colpe, senza fretta e senza doppi fini.
Troppo sciocco per parlarne ancora.