Mi manchi, dicono succeda.
Non devo preoccuparmi, non devo farne drammi, non devo cercare di capire, non devo fare niente. Fermo, immobile. Devo aspettare che il dolore passi, mi attraversi, mi saccheggi. Devo aspettare che il dolore non trovi più niente da prendere, e mi esaurisca, mi sfinisca, mi deformi. Devo aspettare di dimenticare qualcosa che non sento di saper dimenticare. Qualcuno mi dice che il tempo ingoia tutto, non è esigente, non ha pretese, e riduce tutto a passato, senza distinzione tra gioie e dolori, senza distanza tra ciò che ha regalato sorrisi e quel che ha rigato le guance. E se non passa?
Mi manchi, dicono reagisci.
Ma come posso? Mi manca qualcosa che non conosco. Non ho fatto in tempo, non c’è sempre tempo per tutto. Come posso reagire se mi manchi, e non so chi sei? Non lo so, davvero. L’ho intuito, l’ho intravisto dalle feritoie luminose che sono state le giornate insieme. Eppure mi dicono così, che il tempo manca. Che il tempo corre. Che il tempo è un inciampo. Che non è nulla di speciale, altrimenti avrebbe volato da solo. Mi dicono che il tempo è ciò che facciamo del tempo. E mi si confonde il cuore, dove sei? A me il tempo interessa meno se non ci sei tu. Scorre ruvido. Fa attrito. Diventa superfluo, diventa intrusione, invadenza, irrimediabilità.
Mi manchi, dicono aspetta, datti tempo. Dicono vedrai. Dicono passerà. E io cerco di spiegare a tutti e a me che non può passare perché, in fondo, non sei mai arrivata. Passa un virus, passa un temporale, passa una stagione, ma passano perché, in un tempo esatto, ci siamo stati dentro, abbiamo avuto a che fare con loro. E poi più. Come fa a passare qualcosa di non definibile, qualcosa di non confinato?
C’è anche da dire che non so aspettare. Non sono fatto per l’attesa, mi logora. Non so nemmeno cosa aspettare. Non so chi essere, nel frattempo. Non so a cosa credere. Non so nemmeno cosa desiderare, perché l’attesa toglie peso ai desideri, li rende asciutti, li cambia. Ha questo modo di intervenire sulla nervatura delle cose, fino a togliere tensione, a allentare gli intenti.
Mi manchi, ma forse non è mancanza vera. È respiro affannato, sogno imprevisto, è un’eventualità di vita saltata senza certezze, un matrimonio, un figlio, un giorno di sole, al mare, a disegnare sulla sabbia le parole senza significati. È un progetto nuovo per entrambi e vecchio come il mondo: stare insieme, starci davvero, non solo seduti allo stesso tavolo, non solo sdraiati sullo stesso letto. Insieme, come due elementi distinti che creano un elemento nuovo soltanto quando si legano a dovere.
C’è stato tutto tra noi. E il tutto non finisce. Non ci credo che finisca. Muta, cambia, si appoggia sulla memoria a lungo termine e la semina, se ne nutre. Ma non finisce. C’è stata stima e c’è stato sentimento, c’è stata passione, una passione nuova, indefinibile e completa, totale. E poi parole, forse troppe, forse poche, ma sincere. Insulti, silenzi, urla, promesse. Dette nell’illusione che bastasse ambire a qualcosa per stare sulla strada che porta lì.
Non ho ricordi da tutelare. I ricordi si tutelano da soli in un gioco alla sopravvivenza che non ci è concesso di capire. Te li ritrovi addosso, ti circondano, ti minacciano, ti appagano. E devi imparare a gestirli, a farci quel che vuoi, purché non consenta loro di ucciderti. E adesso mi torni in mente così, la prima volta che mi hai aperto il portone di casa tua, senza tutto quel trucco che hai sempre sul viso. Semplice, più donna ancora, essenziale. Più vera.
I sorrisi che sai, la musica che ci chiama per nome, l’ironia verso una vita che a volte va storta ma che amiamo da impazzire, le dita che si cercano, le anime che si trovano. Mi manchi, dicono che non è possibile. E invece lo è, venite. Venite qui. Venite a vedere. Cosa credete che sia questo spazio vuoto, questa cavità buia, questo dirupo che ho nel petto?
È quello di una persona che non c’è più, che non c’è mai stata veramente e che, senza volerlo, ci sarà per sempre.