Fingo di non saperlo. Cerco di vivere con pacatezza. Respiro. Talvolta metto sul viso la faccia di chi si annoia, di chi osserva scorrere la vita, e la intercetta soltanto quando vuole, o quando può. Talvolta mi perdo, dimentico, mi reprimo. Talvolta parlo a vanvera, gioco col fuoco, bestemmio, perdo tutto. E talvolta rido, rido di gusto, col cuore sulle labbra, rido dentro, rido intorno. E mi accorgo che la vita, la mia, questa vita che riesco a scegliere ogni giorno è il dono più dolce. Mi basta.
Mi basterebbe.
Fingo di non saperlo, fingo di non sentirlo. Fingo che non esista questo terremoto che sento dentro. Fingo che le sabbie mobili siano un romanzo già scritto, dove affondare sarebbe banale, ridicolo, quasi sciocco. Eppure ne sono uscito da poco. Eppure ho rischiato di restarci. Le sabbie mobili sono infami, sembrano terra, sembrano sostenerti, invece ti inglobano, ti inghiottono. E smetti di essere te.
Ma fingo. Non sempre, non con tutti, non davvero. Fingo che sia niente il tutto che ho imparato a riconoscere, a scegliere, e che ho costruito in attimi consecutivi che ho iniziato a chiamare vita. Fingo di improvvisare, in realtà calcolo, considero, rifletto. Esisto, in un modo che mi appaga. E credo sia una tappa importante, questa, l’autocoscienza, la consapevolezza minima di un posto franco che chiamo me stesso.
Fingo. A volte persino di fingere. E in un rimbalzo di tempi e di giochi, alla fine, sono vero, verissimo. A forza di fingere, così, d’un tratto, ci si ritrova genuini e trasparenti, reali. Ci si incontra, ci si scontra. Ci si svilisce. Ci si consuma. Ci si erode. Si sbaglia continuamente. E poi si smette. E poi si resta, chissà perché.
E oggi, ora, adesso, qui, penso a noi. Non a me e qualcun altro in particolare, ma a me e a tutti gli altri singolarmente, tutte le persone con cui sono stato noi per un certo tempo, pure minimo. E penso a quante volte restiamo sospesi tra intenzione e azione, ingoiamo parole, mastichiamo sorrisi, mettiamo in tasca le mani invece di accarezzare. E smettiamo di essere noi, senza esserlo stati davvero. Succede.
Poi penso a te. Arrivi così, e fai passare la paura di non riuscire a capire. Sposti il resto ad un livello trascurabile. Metti a fuoco, poi sfochi, poi mi tieni la mano e finché me la tieni penso che nulla possa davvero fare male. Sei intera, eppure sei dappertutto, in ogni singolo pensiero, in ogni parola, dietro ogni angolo. E pure se fingo che non è così, sei lì, sorridi, con gli occhi belli, lucidi di vita, che sanno parlare meglio di ogni bocca. Sei aria buona, senza vizi. E mi guardi, tra i nostri occhi un nulla, un niente che contiene tutto, una parola non detta, un bacio accennato, eccezioni, continue eccezioni.
E io fingo di non saperlo. Fingo di non capirlo. Ma quello che mi caratterizza da sempre è quest’impazienza per ciò che non è adesso. Che non è ancora. L’impazienza per ciò che potrei e non faccio, che avrei e non ho, che sarei e non sono.
L’attesa fervida per ciò che ancora non arriva, non mi fa vivere. E non riesco a fingere. Non so fingere più. Mi spiazza.
Questa impazienza mi scava il cuore. L’impazienza di vivere, di fare, di completare. E dall’altra, l’impazienza, strana, del tempo trascorso. L’impazienza del passato che non torna, e che non ho vissuto veramente perché non ero io. Ho temuto di perdere cose, persone, sensazioni che non ho saputo cogliere. E dall’altro lato ho temuto di rimpiangerle per non averne assaporato la Verità. Quando si viaggia a frequenze disturbate, tutto è estraneo.
Poi ripenso alla mia casa sull’ulivo, di legni inchiodati, incastrati, belli, in un’epoca lontana, e a mio padre che cammina tra i filari laggiù, e si muove senza far rumore, e sembra eterno. Invece, un attimo dopo è già finito.
Così mi passa un testa un pensiero esatto. Nel’impazienza di vivere, la vita passa via. Mi calmo. Ti riconosco. E quando ti guardo camminarmi intorno, mezza nuda, con una felpa così grande per il tuo corpo essenziale, afferro al volo la certezza che in questa impazienza di vivere che ho, in questo fiato corto con cui rincorro la vita, c’è qualcosa che mi placa, che rende oggi sempre il giorno migliore. C’è qualcosa che inchioda il tempo al momento in cui batte, ogni secondo al suo momento preciso.
E quel qualcosa siamo noi.