È la storia di Riggan Thomson (Michael Keaton), un attore celebre per aver interpretato in passato un supereroe fascinoso – Birdman, per l’appunto. Un vecchio attore dalla fama appannata che si improvvisa autore teatrale impegnato, cimentandosi con l’adattamento del racconto di Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
La trama del film è tutta qui. Ma ha talmente tante chiavi di lettura da risultare complessa e sfuggente. Innanzitutto, la scelta di Keaton come protagonista. Anch’egli celeberrimo per il ruolo Batman negli anni ’80 e poi sparito dalle scene per anni. Una sorta di biografia indiretta, un gioco di vite che si accavallano e si confondono sullo schermo e fuori. Ma di cosa parla davvero Birdman? Tocca molte tematiche interessanti, attraversando la vita di Thomson nella sua precarietà familiare, affettiva e mentale, che ci riconsegnano l’immagine di un supereroe che non c’è, non è più. Attraverso il suo sdoppiamento bipolare, le sue follie, il suo disincanto, il suo disordine interiore e le sue manie, lo spettatore è chiamato a riflettere sulla vecchiaia, sul declino della celebrità, sulle regole infami delle industrie culturali, sulla depressione, sui fantasmi che talvolta tormentano l’ego di chi subisce le delusioni peggiori, sull’accettazione delle ipocrisie, in un’altalena di continui rimandi tra realismo e immaginazione, tra storia e costruzione narrativa.
Dal punto di vista tecnico, lo spettatore si perde nella fluidità del piano sequenza che non stacca praticamente mai, contribuendo a creare quel “clima” incalzante (confermato dalle percussioni in perenne sottofondo) che è caratteristica del film, e della vita di Thomson.
Un aspetto interessante da citare è la somiglianza, ovviamente cercata, tra il modo in cui il regista Iñárritu e Carver gestiscono la materia narrativa. Entrambi procedono in negativo, cioè mostrano dettagli, marginalità, sciocchezze, che sembrano distogliere dalla storia principale, dal filone della trama. Mostrano ciò che non serve per evidenziare ciò che non c’è. Nel racconto, Carver fa dialogare quattro amici ubriachi intorno all’amore. I loro discorsi, apparentemente sconnessi e privi di contesto, riferiti a persone altre, non presenti, non significative, solo alla fine si rivelano coerenti e coesi col quadro generale. Riflettono sull’amore attraverso le storie d’amore degli altri. Allo stesso modo, in Birdman, Iñárritu in-segue i suoi personaggi (tra cui spicca un ottimo Edward Norton) in insignificanti corse nei corridoi del teatro, ascolta i loro dialoghi all’apparenza inutili, si concentra sulle loro manie non funzionali alla storia, senza nessuna apparente necessità narrativa. E tutto questo giunge ad una scena molto significativa nella quale, mentre sul palco è in scena una rappresentazione da cui si deciderà il futuro dell’intera compagnia teatrale, le riprese indugiano su un corridoio vuoto da cui si sentono le voci degli attori, ma non si vede nulla. In sostanza, protagonista è un luogo dove non sembra esserci nulla di significativo, ma attraverso questa tecnica ci restituisce l’importanza e la coerenza del non detto e del non evidente.
Birdman non è un film di facile ascolto. Può sembrare molto altro, può affascinare e deludere per le stesse identiche ragioni. Ha una miriade di riferimenti e citazioni, di testi e sottotesti. Di linguaggi e metalinguaggi. Va visto più volte. Del film di Iñárritu colpisce la freschezza narrativa e la facilità con cui tocca temi molto diversi finendoci addosso. Senza filtri, senza ipocrisie, senza falsi moralismi. Il film risulta un riuscito esercizio di fuga dalla realtà, in cui la realtà viene superata e vinta dalla finzione. È tutto finto, persino il vero.
“Una cosa è una cosa, non quel che si dice di quella cosa”.
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Birdman – Le imprevedibili virtù dell’ignoranza
Di A. Iñárritu
Con M. Keaton, E. Norton, N. Watts
Durata 119′
Oscar per miglior film, regia, sceneggiatura e fotografia.