Mi guardo allo specchio senza volerlo, praticamente è un incidente. Non è qualcosa che mi piace fare, ma quando capita mi perdo sempre un po’. Cerco di immaginare come mi vedano gli altri. Così, come ti vedi nello specchio, mi direbbe qualcuno di voi. E forse è così, semplicemente così. Non c’è altro. Eppure credo che le cose davvero semplici non esistano, siamo noi a semplificarle per poterle maneggiare, imparare, utilizzare.
E allora in questo momento mi fermo, con una quiete che spesso dimentico, e mi guardo, come se qualcun’altro mi proiettasse su questo schermo che è lo specchio del mio bagno. Chi sono? Che domande… sono io! Mi conosco da anni, sto insieme a me da sempre. Eppure i miei occhi vedono i miei occhi diversamente. È stato un attimo, un frammento di tempo misero, quasi impercettibile. Poco prima di impiastricciarmi i capelli con questo gel del discount, e subito dopo aver riposto lo spazzolino nel bicchiere. È stato un attimo. Mi sono sorpreso estraneo, come se a guardarmi non fossi stato io o non fossi io quella persona che guardavo.
E allora mi fermo ancora qualche istante. Vado di fretta, non così tanto però. Questo momento da solo con me stesso è occasione preziosa per auscultarmi la vita. Per contarmi il polso. Per controllare il resto. Sto bene, lo ammetto. E lo dico con lo stupore di chi esce a piedi nudi dalla nube di terra e detriti di un palazzo crollato da poco. Mi guardo le mani, e sono asciutte, pulite, buone ancora per afferrare tutto. Gli occhi sono stanchi, pieni delle lacrime che solo una polvere così sa far venire giù. Ma sto bene, sono vivo. E ammetterlo mi fa stare ancora meglio. Perché è un bene meno costruito, meno calcolato, più spontaneo. È il bene che sostiene, che stimola, che sa ascoltare. Qualcuno di voi si stupirà, ma lo dico lo stesso: avevo dimenticato che si potesse stare bene in questo modo. Stavo male e dicevo: sto bene. A chi non è mai capitato dico: capita. E dico anche: passa. Ma dico soprattutto: occorre credere che passi, e lavorare per farlo passare, investirci, perché non passa mai da solo.
In realtà, quello che mi stupisce è una tranquillità improvvisa, quasi sommersa, che avevo smarrito da qualche parte dentro di me e che ho riscoperto per caso, come un vecchio album di fotografie. Sapevo di averlo, non ricordavo dove. E forse questo è il modo più bello per ‘guarire’: ritrovarsi tutto dentro, senza doverlo andare a cercare da nessuna parte, senza affrettarsi a costruire, senza improvvisare, senza mentirsi, senza accontentarsi o farsi bastare altro. Una sorta di consapevolezza che si era appannata per i fatti della vita e che ho lucidato, portato di nuovo al vivo.
La più bella sensazione che provo, in questa mattina di primavera arrogante, è che non sono in ritardo. Ci ho vissuto una vita. E fino a stamattina lo pensavo fermamente. Invece non sono affatto in ritardo. Che bella e piacevole sensazione di calma. Di istantaneo ma completo appagamento. Così si può davvero pensare tutto, si possono giocare partite che non immaginavamo nemmeno di poter giocare. Insomma, è una riscoperta che accoglie diversi ambiti, non solo il mio petto. Persone, idee, progetti di vita e di lavoro, speranze, famiglia. Un vortice che sale, che posso abitare, che sostiene.
Mi piace giocare con le parole e dire che in questo giro di vite serve proprio questo. Un giro di vite, una stretta, una forma di tutela anche spicciola che dobbiamo a noi stessi, che non conduca fin sul bordo del baratro prima di mostrarci la gioia della vita, perché da lì è più difficile tornare indietro e non saltare giù.
Un giro di vite che dia sostanza e consistenza a chi, nonostante i rischi, le sofferenze, i disagi e il dolore, a quel nostro giro di vite, sopravvive e ci resta accanto.