Non mi aspetto più il silenzio.
Quelle volte che, per caso,
il silenzio accade,
non so che farci.
Eppure lo bramavo,
Non esiste un luogo così pieno di tesori.
Ora quando di colpo arriva
mi infastidisce.
Non lo so più gestire.
Mi sembra inutile, sprecato.
E io sciocco a non farlo fruttare.
Sono seduto su un letto sfatto,
a ricordare ciò che da mesi desidero fare.
Invece che a farlo.
A ricordare, in silenzio, quel che dimentico
ogni volta che parlo, ogni volta che urlo,
ogni volta che corro a perdifiato.
Rincorro il silenzio, lo sfioro e fugge via,
non so trattenerlo.
“Hai tre ore, finalmente!”,
mi dice qualcuno dentro la testa.
“Vai, goditele”.
E invece.
Il mio silenzio non sta più in silenzio.
Anche quando c’è, mi muovo, faccio confusione,
cerco di risolvere problemi lontani, rimandabili.
Confondo l’urgente con l’importante.
Prima me ne nutrivo, e dentro, sovente,
ci trovavo qualcosa di nuovo.
Una storia d’amore. Un’idea selvatica.
Una compassione.
Un perdono.
Oggi non so più stare da solo.
Soprattutto questo mi ha portato via la paternità.
Ho disimparato la solitudine.
non so più come si fa ad abitarla.
E in questo saldo con la vita,
che facciamo tutti a un certo punto,
mi chiedo se ci vado pari.
Mi chiedo cosa potrò essere ancora.
Penso alla frangetta di mia figlia,
tagliata tutta storta da me e dalla mamma
durante la quarantena,
al suo sorriso, rimasto uguale,
per tutto il tempo, in cui noi,
esausti dalla reclusione,
abbiamo ascoltato i milioni di parole
che dice ogni giorno.
Sono molto bravo a darmi alibi,
e a dare colpe.
È facile, appaga.
E quella confusione
mi è sembrata un alibi di ferro.
Essere padri è un alibi di ferro.
Per non fare più tante cose.
Eppure, adesso, proprio questo –
il suo costante sorriso
sotto una frangetta squilibrata –
mi sembra la ragione
per la quale mi son messo a scrivere
questa roba qui.
Per la prima volta,
da un po’ di tempo,
sto in equilibrio
e mi lascio in pace.