Oceani, ritorni e giacimenti

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Esistono dei luoghi che non passano mai. Sono come certe malattie, devi imparare a conviverci.

Non guarisci più, non si può, la cura non esiste. La cura non cura, non sa cosa curare. Quei luoghi si insinuano ad un livello diverso dagli altri habitat nei quali assaggi mozzichi di vita, nei quali risiedi giusto il tempo di un errore, di un rimpianto, di una gioia, di una scelta. Quei luoghi non sono come gli altri, non si appoggiano sugli occhi, sulle mani, sulla bocca. Quei luoghi cominciano a farne parte. A diventare occhi, mani, bocca. A confondere i ciottoli delle loro strade, coi tuoi tessuti. I loro scorci, coi tuoi sguardi. I loro sapori, con la tua bocca. E tu diventi loro, e loro un po’ te.

Non so come accade. So che accade. A me è successo. Si tratta, in sostanza, di una qualche forma di dispersione e di accrescimento. In un certo senso, ogni volta che torni lì, perdi parti di te che davi per assodate, ormai conquistate, intime, tue. Reparti che tenevi aldiquà delle mura di cinta con cui ti relazioni col mondo. Zone emotive di una certa consistenza, che si disperdono in giro – e le vedi lasciarti, – e non sai perché, né dove finiranno, o di cosa diventeranno quota. Eppure, ogni volta che rimetti piede a casa, ti senti comunque diverso, cresciuto, ridipinto. Perdi pezzi, eppure aumenti. Com’è possibile? Questa dinamica risulta così incredibile da sfuggirmi.

Ho pensato che forse succede come coi recinti. Uno se ne sta dentro il proprio, e si sente al sicuro, e vive di una serenità contenuta, di una libertà vigilata, e va bene così. Si basta. Poi succede qualcosa – o succede qualcuno, – che riesce a intervenire sulle barricate, le sa dolcemente abbassare, ci mette in contatto col mondo reale, quello fuori di noi, quello che parla, che ci ospita, che ci contiene. L’unico in cui possiamo ambire a completarci.

Può essere una persona, un luogo, un’esperienza, un momento. Quel qualcosa – qualcuno – è un cortocircuito che avviene dentro di noi. Non si dimentica. Ha abbassato i contorni, li ha resi calpestabili, ci ha aperto il mondo, e al mondo.

È un po’ come la prima volta che facciamo l’amore, che andiamo al mare, che guidiamo una macchina, che prendiamo un aereo, che sbagliamo strada, che andiamo in ospedale, che mangiamo Nutella, che indoviniamo i risultati delle partite. Non lo dimentichiamo. E non è solo quello. Non si tratta di semplici ricordi, ma di azioni che continuano ad agire anche dopo che sono finite, aprono altre possibilità, ci sussurrano esiste anche questo, esiste davvero, puoi farlo, puoi accoglierlo nella tua vita, o rifiutarlo, ma non far finta di non conoscerlo. E da quel momento non riusciamo più a vivere allo stesso modo, giochiamo su altri tavoli. Su più tavoli.

Forse per questo esistono dei luoghi che non passano. Perché non sono semplici ricordi. Non sono una manciata di fotografie salvate su qualche hard disk impolverato. Non sono sorrisi e paesaggi. Non sono lacrime e tavoli apparecchiati. Sono contenitori di qualcosa. Sono ambiti entro cui ci è capitato qualcosa di grosso, entro cui abbiamo scelto direzioni di vita, elaborato lutti, scoperto panorami di dentro che non sapevamo di ospitare. Non sono parentesi, ma pagine senza cui il libro che siamo non filerebbe più.

Sono chiavi, porte, corridoi, stanze, finestre.

Lisbona, per me, è un luogo così. Di tutte le volte che l’ho abitata, nemmeno una sono tornato davvero indietro. Sono partito nei modi più disparati – disperato o entusiasta, innamorato o infelice – e ogni volta, davvero, ogni volta, ho cambiato coordinate esistenziali. Ho preso direzioni.

Tornare a Lisbona, non andare a Lisbona. In questa frase c’è molto più che la ripetizione di un’azione. Tornare non è andare, e nemmeno raggiungere, e nemmeno visitare, e nemmeno viaggiare. È qualcosa che prende accezioni in prestito da questi verbi, e le esalta. La sensazione è che, su quelle colline, affacciato su un fiume che sembra mare e si perde nell’oceano, ci sia qualcosa di sospeso. E forse è così, forse tornarci mi aiuta a capirlo, a capire sempre più di che si tratta. Forse i marciapiedi colorati, le terrazze, i chioschi, la malinconica decadenza, il cielo che lì è come da nessun’altra parte, mi assomigliano, per tanti motivi che è persino stupido elencare.

Quel che riesco a dire è che Lisbona mi sembra un giacimento di parole sommerse. Di inquietudini e di risarcimenti. Di paure e di esaltazioni.

Quel che riesco a dire è che ogni volta lascio parole in custodia a qualcuno. Progetti. Qualcosa che credevo perduto.

E puntualmente mi stupisco di quanto sia dolce, poi, tornare a riprenderlo.

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