A un certo punto, vorrai farti un tatuaggio. Io sarò sul divano, a leggere l’ennesimo romanzo, e tu verrai lì, con gli occhioni accesi, una gonna azzurra, e mi dirai: – Papà voglio farmi un tatuaggio.
Ti siederai accanto a me, alla stessa altezza, ricavando spazio tra le mie parole. Io non dirò niente, sebbene non abbia tatuaggi e non li abbia voluti. Mi accorgerò in quel momento che il tuo corpo di bambina starà lentamente diventando corpo di donna.
Sul cellulare mi farai vedere 5\6 frasi tra cui sarai indecisa. Le scorrerai col dito, carezzandole. Farò finta di essere concentrato. Tu le leggerai con un tono da teatro, impostato. E sarà la prima volta che ti sentirò parlare così. Scorrerai con innocenza, fino a farmi leggere una frase di De Andrè.
Ti chiederò: – E questa? Dove l’hai trovata?
– Su internet. Mi piaceva e l’ho aggiunta.
– Ah.
E mentre ti chiederò di dirmi dove vorrai tatuarti e ti vedrò indicarmi le parti del corpo che preferisci (il fianco, il collo del piede, la base della testa), penserò che io con quella frase ho pianto, mi sono innamorato, ho perso tempo, ho fallito, mi sono capovolto. Penserò che in un certo senso ce l’ho tatuata addosso anche io, e mi rappresenta, ma che, per qualche splendida ragione, a te non riguarda.
Perché è questo in fondo che fanno le parole, anche coi padri, anche coi figli. Ci colonizzano in tempi diversi, in modi diversi, per ragioni diverse. Eppure sono le stesse. E non avrò voglia, né sarò in grado di spiegarti perché avrò il batticuore, perché mi suderanno le mani, quando scorrerai quelle 5/6 frasi per l’ultima volta e dirai: – Questa. Ho deciso. Questa.