Sono fermo, aspetto il treno. Quanti ne ho attesi nella mia vita? Quante volte, ciondolando, con un libro in mano, con la testa altrove, ho ingannato il tempo che mi separava da qualcosa o da qualcuno? Quanti minuti ho passato aspettando? Quante ore, quanti giorni?
Ho aspettato così tanto, e così tante persone, e così tanti momenti esatti, che l’attesa è diventata quasi un modo di vivere. Non sono mai stato in un posto soltanto. Non sono mai stato in una situazione semplice, con coordinate minime, a compiere gesti singoli, con conseguenze univoche.
Non sono mai stato davvero fermo. Ho riempito l’attesa di altro. E mi rendo conto, oggi, di come la mia vita, a conti fatti, fosse soprattutto ciò che facevo aspettando qualcos’altro che non arrivava. Ero da qualche parte con l’ansia di essere altrove. Parlavo con qualcuno desiderando il momento successivo, con qualcun altro. Ho aspettato migliaia di treni, di aerei, di autobus. Ho aspettato amori, amici, colleghi e sconosciuti. Ho aspettato l’occasione di poter dimostrare il contrario di quanto mi venisse imputato – che sciocchezze. Ho aspettato di respirare quando vivevo in apnea, quando mio padre, all’improvviso, e senza ragione, smise di parlarmi d’amore. Quando mi sono detto: e adesso? Quando mi sono detto: andiamo. Ho aspettato la fine, il rantolo, di certi sentimenti che sembravano eterni, senza fretta, rischiando di buttare via tutto il tempo che avevo, l’unico. Ho aspettato di dimenticare che quei sentimenti fossero esistiti, di seppellirli, salvo poi comprendere che l’unico modo per discostarsi da loro, andare oltre, fosse ricordarli senza rimpiangerli.
E ho aspettato perfino di conoscermi, impaurito come un pulcino di un uovo appena schiuso. Ho cercato di capire da dove venivano certi malesseri che mi trattenevano le gambe, e le ali. Mi sono fidato, di me, di altre persone, quando era molto più facile non farlo, e ho messo in testa quei caschi illuminati, quelli con cui i minatori scendono giù, alla ricerca di oro, di pietre preziose, di qualcosa di buono da estrarre, da tirare via. Mi sono esplorato. Ho cercato di portare alla luce, piano, piano, quello che di bello c’era nel giardino abbandonato della mia vita. Ho riscoperto boccioli sopravvissuti alle tempeste, angoli di terra ancora fertili, alberi ostinati. Ero ancora vivo, ma l’ho compreso soltanto nell’attesa di capirlo.
Per questo credevo d’essere uno che l’attesa la attuasse da professionista. Un “aspettatore” modello. Qualcuno che ha capito come “saper aspettare” sia la chiave di ogni buona riuscita.
Poi, un giorno di gennaio, è capitato di iniziare ad aspettare te.
E questo mio modo di riempire l’attesa con altro è saltato in aria. Non vale più, non si tiene in piedi. Da quando esisti, l’attesa sei tu. La sto imparando solo ora. Sto imparando a dare a questa parola, che pensavo di conoscere perfettamente, tutto un universo di accezioni che non conoscevo – che non potevo conoscere. Come se da domani, all’improvviso, fosse diverso respirare.
Quando si aspetta, si aspetta e basta. E non si sa nemmeno bene cosa. Sembra un tempo che non serve a nulla, che potremmo e vorremmo saltare, per arrivare prima al dunque, al momento topico, al futuro. E invece è un tempo necessario, che predispone, allestisce, incanta.
Guardo i vestitini che indosserai appesi allo stendino, inondati di sole. Mi chiedo come farai a entrarci dentro, se io per stenderli ho faticato ad usare delle mollette qualsiasi. Guardo la vasca in cui farai il bagnetto e mi chiedo dove sei, adesso, proprio ora, che sto scrivendo di te, senza conoscerti, con la certezza di conoscerti già. Guardo la culla, il lettino, il passeggino, e mi sembra tutto così strano. Gli oggetti che preesistono, che in qualche modo ci anticipano, che dicono qualcosa di noi prima di noi. Guardo la pancia, la bacio, e tu mi scalci sulle labbra, proprio lì, proprio in quel momento. E non so dirti cosa provo, posso solo augurarti di provare anche tu tutto questo, un giorno.
E mi sembra strano, ma in questa straripante riconoscenza che sento per te, imparo ad aspettare, imparo solo in questi mesi, grazie a te. È il tuo primo insegnamento. E questo modo che oggi ho di aspettare te, con questa gioia, con questo “tutto me stesso”, è figlio di ogni briciola, di ogni sciocchezza, di ogni crocevia che ho atteso nella vita.
L’attesa, prima di te, non era per me, non sapevo come viverla.
E anche adesso che sono qui – sono quello che aspetta il treno, mi vedi? – non vado di fretta, non importa se prenderò questo, o il successivo. Non importa se arriverò prima, o in ritardo, o magari per niente. Contano le direzioni, più che gli arrivi. Contano i sedili accanto ai nostri, i finestrini aperti, i paesaggi illuminati. Per questo oggi aspetto in modo diverso. Per salire su quel treno con te.