C’è una situazione che non tollero – e mi dispiace usare questo tono, ma è così: le persone che rispondono col plurale di coppia. Tu chiedi a qualcuno qualcosa, anche di sciocco, perché ti interessa la sua opinione, tipo Ti piacciono le cipolle? e al suo posto ti risponde il/la compagno/a utilizzando un plurale inutile, tipo No non le prendiamo mai, ci risultano pesanti.
Non lo tollero. E potrei addurre una quantità pressoché infinita di motivazioni più o meno valide e condivisibili, ma in realtà la ragione della mia intolleranza è una soltanto: io non credo ad un rapporto così, ad un amore così. Mi sembra finto, vuoto, forzato. Quella frase semplice nasconde molto di più di quel che dice. È un’invasione a mano armata della soggettività di una persona.
Ci sono persone, con cui mi sono confrontato anche aspramente, che considerano vero e profondo solo un rapporto totale. Lo chiamano così. Stare insieme significherebbe fare tutto insieme, essere insieme in ogni momento, ogni scelta, ogni tutto. Sovrapporsi. Mescolarsi. Ridefinirsi per definire un noi che prima non esisteva e che costituirebbe l’essenza stessa della relazione. Un rapporto nel quale – andiamo al dunque – le singole identità che dovrebbero costituirlo si fondono in qualcosa di diverso, senza più le peculiarità dei singoli. Un agglomerato informe di idee e di compromessi, nel quale non contano tanto le idee o i compromessi quanto il fatto che siano identici e condivisi. In questo rapporto ognuno rinuncia a molto di sé per essere qualcosa che spesso nemmeno sa. Smette di essere se stesso, si snatura, e inizia ad essere qualcosa, nel quale, in una conversazione onesta e razionale – questo fa ridere – nemmeno si riconosce davvero.
Lo fa incosciamente. È un riflesso che non controlla. Si chiude in una relazione che lo ingloba e lo appiattisce. Accetta vere e proprie costrizioni. Aderisce ad un rapporto totale come unica modalità per viverlo. Non ne conosce altre. E spesso nemmeno sente mancanze, impedimenti. O limitazioni. Stare insieme è smettere di essere se stessi, per essere qualcos’altro. Di grande, di immenso, di eterno.
Se parli con queste persone, ovviamente ti dicono che sono libere e che nel loro rapporto c’è spazio per tutto, che sono serene, si rispettano, si stimolano e sono davvero davvero davvero felici. Bene. Poi dopo qualche tempo le vedi prendere boccate d’aria mentre vanno a buttare la spazzatura ad orari improbabili, fumare una sigaretta che non avevano mai fumato, piangere davanti a una birra con un amico, tempestarti di messaggi e di richieste d’aiuto, sperare di lavorare i giorni di festa per non doverli passare in famiglia. Dopo qualche tempo, nemmeno troppo, cominciano a chiedersi perché, e come, e quando è successo tutto quello che è successo per renderli cosi infelici. Funziona così. Ti butti, poi, finita l’ebbrezza del volo, ti ricordi che non sai volare.
Per come la vedo io, ci sono coppie che non sono fatte di persone, ma di abitudini, di concessioni, di permessi, di approvazioni, di ripicche, di gabbie di vetro che sembra non ci siano, e invece ti limitano più delle galere perché smetti di lottare per liberartene. Ci sono coppie che sono soltanto coppie. Cioè due esseri umani messi uno accanto all’altro, che gestiscono assieme le cose della vita. Tutte magari, persino i respiri, ma solo quelle. E hanno bisogno dell’altro, ne hanno necessità. Mi sembra banalissimo che dopo un po’ – nemmeno troppo, e a patto di non essere privi di una propria identità – questo equilibrio fatto di niente possa incrinarsi, autodistruggersi, implodere. Si sta insieme per attrazione, per solitudine, per caso. Il rapporto non poggia su nulla di veramente solido.
Io, da parte mia, mi chiedo cosa possa succedere nella vita di un uomo per farlo rinunciare a se stesso. Perché di questo si tratta. Lentamente, certo, mica si firma qualcosa, mica si schiaccia un interruttore. Ma si tratta di questo. Di rapporti che ti tolgono te stesso da dentro. Non credo ci sia bisogno di colonizzare qualcun altro, parlare al suo posto, utilizzare a sproposito un noi, quando si parla di un sé. Non credo occorra smettere di essere uno, per essere Noi. Credo in chi ha imparato a volare da solo e sceglie di volarsi accanto. Credo in chi si sceglie o si rinuncia ogni giorno. Credo in un rapporto non totale, ma totalizzante, che sappia rendere plurali gli interessi, gli obiettivi, le emozioni, i problemi e le soluzioni. Credo in una relazione che non sia la somma di due persone, ma un’evoluzione. Un Noi che cresca dai singoli che ne sono radice. Un Noi composto di persone che si rispettano e si accarezzano senza invadersi, che si parlano e si ascoltano senza parlare, che si amano ma sanno anche dire no, non la penso così e restare delle proprie rispettive opinioni senza che questo sia un problema di coppia. Credo in un Noi fatto di persone che sono se stesse, restano intatte, persone che sappiano accettare compromessi senza intaccarsi la dignità, senza erodersi l’identità, le ambizioni, i fremiti che li facevano sussultare. Certo, non è facile. Ma esiste qualcosa di veramente bello che sia facile da costruire?
Qualcuno mi vuol far credere che basta stare insieme per stare insieme. No, dai. Non gli credete. Non credete che basta fare l’amore, sentirsi spesso, ridere ogni tanto, vedersi nel finesettimana, persino convivere o sposarsi o fare dei figli, per stare insieme. Non gli credete! Questi sono gli effetti dello stare insieme, noi li confondiamo con le cause.
Io non ci credo a un amore così. Qualcuno mi ha detto che è questo il momento in cui si diventa adulti: quando si inizia a preferire la solitudine ad uno stare insieme che non includa anche quello che siamo sotto la pelle.