Vite che non sono la tua

“Mi diceva: un giorno tutti conosceranno il mio nome”

Queste sono le parole, di una ex del copilota suicida del volo A320 della Germanwings, che più di tutti mi hanno inquietato in questa vicenda. Sono parole equivoche, che possono rappresentare la semplice ambizione di un ragazzo per bene, o magari la speranza, il sogno, l’obiettivo di una persona che sente di poter fare grandi cose nella vita. Possono essere parole dette nell’intimità di un momento, ad una ragazza di cui vogliamo attenzioni.

Un vigile del fuoco recupera un pezzo del velivolo - Foto Reuters

Un vigile del fuoco recupera un pezzo del velivolo – Foto Reuters

Quello che mi inquieta non è tanto questo. Non è neppure il pensiero che nella vita uno possa desiderare di mettersi in mostra con gesti estremi. Mi inquieta la lucidità della follia. L’esattezza nella macchinazione della strage. La puntualità e la calma che lasciano stupiti, quasi scioccati. Non ha avuto titubanze, né alcuna remore. Non sono servite le urla dei passeggeri, gli ordini del Comandante, neppure quel briciolo di paura che si ipotizza possa avere provato. Non è servito nulla. Non ha avuto nessuna, neppur minima, esitazione. Ha preso i comandi dell’aereo e lo ha condotto contro la montagna. Questo mi paralizza. Questo meccanismo di azzeramento del contesto, di incapacità di valutare le conseguenze di un’azione enorme. O, peggio ancora, di valutarle e considerarle possibili, accettabili, indifferenti. Come se, in sostanza, le vite che non sono la tua non siano vite. Come se tutto ciò che non appartenesse a te stesso non abbia dignità di sopravvivere, non sia importante. Come se tutto ciò che non sia dietro o dentro di te valga zero. Meno di zero. Questo mi inquieta.

Ero in aeroporto martedì mattina. Una voce italiana alle mie spalle, dopo giorni di lingue straniere, ha cominciato a parlare di un disastro aereo avvenuto qualche ora prima.

“Cambiamo volo anche noi, come la squadra di calcio. Era una compagnia low-cost quella, come la nostra”.

Come la mia, mi viene da pensare, in uno di quei moti egoisti, ma così umani, che abbiamo tutti di fronte alle tragedie altrui. Da quel martedì mattina è passata quasi una settimana. Ad ogni nuovo dettaglio di questa tragedia, la mia inquietudine sale. Vertiginosamente. L’evento si arricchisce ogni giorno di nuove variabili. E ogni giorno sembra più inspiegabile. Abbiamo bisogno di capire, noi esseri umani. Di etichettare le cose prima di riporle. E con questa vicenda non mi riesce.

Qualcuno parla di profonda depressione, qualcuno di lucida follia. Io non sento per niente il bisogno di dare il nome a quello che ha causato la tragedia, non ho le parole né le competenze per farlo. Quello che so è che Andrea Lubitz, che aveva 29 anni, non pilotava davvero. Qualcuno, dentro, pilotava quell’aereo al posto suo.

Prima si è detto che la depressione era nata a seguito di un amore finito e non superato mai realmente. Poi che nell’ultimo anno le condizioni mentali di Lubitz erano peggiorate e si era molto più chiuso in se stesso. Mentre scrivo sta sorgendo l’ipotesi che l’attuale compagna di Lubitz sia incinta (e questo che vorrebbe dire?). Sono venuti fuori gravi problemi alla vista e il conseguente presunto timore di non poter volare più. Si è parlato di un certificato medico che era in corso di validità addirittura il giorno della strage.

Io, da semplice cittadino europeo, non posso sapere nulla di diverso da quello che i giornali, i media, mi propongono. Però posso pensare. Elaborare. Supporre. Quello sto facendo.

Posso pensare che, qualsiasi patologia avesse Andreas Lubitz, non lo ha condotto a un suicidio “semplice”, diciamo così. Ma ha coinvolto i destini di chi ha condiviso a caso il momento in cui quella patologia ha preso il sopravvento. Un rifiuto totale della vita. E questo è un dato importante per capire l’entità di quel malessere. Ho sempre avuto un sentimento molto simile al rispetto per chi decide di farla finita, e un profondo turbamento. Non spaiato, però, da un riguardo sincero per il coraggio di una scelta che io non riesco nemmeno a pensare di valutare. Un atto che comprendo solo fino a un certo punto, ma che osservo, rispetto, considero con cura. Questa volta, non è stato così. E non credo di essere esagerato ad affiancare (con le dovute proporzioni “patologiche”) Lubitz, europeo, tedesco, bianco, di fede al momento sconosciuta, ai kamikaze islamici. Almeno per una ragione profondissima: ognuno uccide se stesso e il contesto casuale che ha intorno (un mercato affollato, un autobus, una piazza, un museo, … e un aeroplano) per motivi che ritiene validi, validissimi, reali.

Posso pensare che Lubitz non poteva decidere con anticipo quando schiantarsi. Non poteva sapere se né quando il Comandante si sarebbe assentato per bisogni fisiologici. Prima le conversazioni erano state normali. I pensieri, le valutazioni, le tensioni, i timori di Lubitz, in quell’attesa della fine, quali sono stati? Quando il collega è uscito avrà detto: è il momento? Non so. Non riesco a pensare a una tale acuta esattezza.

Posso pensare che, una volta iniziata la discesa, il copilota non ha lasciato precipitare il velivolo. Lo ha condotto fino all’altezza di 100piedi in un lento declino. Lo ha “guidato” addosso alla montagna. Fino alla collisione. Un Titanic che affonda nell’aria, lentamente.

foto Reuters

Immagini dei resti dei bagagli – Foto Reuters

I primi giorni mi sono perduto nelle storie, negli aneddoti di ogni singolo passeggero. La coppia di sposini di ritorno dal viaggio di nozze, la scolaresca in gita culturale, i due cantanti lirici, giornalisti di ritorno da Barca-Real, imprenditori, dirigenti di grandi aziende, e tante altre persone qualunque, sfumate dal mondo con violenza, addosso alle Alpi francesi. Quelle storie, le storie che i giornali tirano fuori così dettagliatamente dopo ogni tragedia, mi addolorano molto. Mi ricordano che la lista passeggeri non è una lista di nomi, ma di universi. Di macro-ambienti a sé stanti, autonomi, ricchi, autosufficienti.

Dalle prime fotografie d’alta quota, si vedevano solo crinali di montagna, marroni, bianchi, verdi. Qualche macchia più chiara, qualche pezzo di aeroplano, qualche cumulo di oggetti. I parenti delle vittime hanno chiesto di andare a vedere. Sul posto. Dalle foto sembrava solo un paesaggio. Nessuno poteva dire che si era abbattuto un aereo lì. Loro avrebbero voluto vederlo. Come se lo sguardo, gli occhi, la vista, fossero conferma inequivocabile di qualcosa a cui, fino al momento prima, siamo legittimati a non credere del tutto. Manteniamo il lusso di un minimo dubbio.

Dopo l’ascolto della scatola nera, che ha confermato l’azione di Lubitz, la famiglia del copilota, prima considerata alla stregua delle famiglie delle vittime, è stata portata al sicuro. Questo aspetto merita due parole. Quei genitori, che piangevano insieme agli altri la perdita di un figlio, di una persona cara, all’improvviso si sono ritrovati a piangere da soli. In un dolore esclusivo e aggravato del dolore causato agli altri. Un dolore inguaribile, probabilmente incomprensibile, ma talmente umano da commuovere al pari dei dolori degli altri.

A questo proposito, sono significative le parole del padre di una delle vittime, un ragazzo deceduto per un gesto inspiegabile, incomprensibile, imperdonabile. Gli hanno chiesto: “Lei è arrabbiato con il copilota?”

Lui con gli occhi vividi ha risposto: “Non provo rabbia, sono solo molto triste e addolorato. Ma non penso, non ho mai pensato al copilota. Penso alla sua famiglia. Ai suoi genitori.”

Ora, aldilà di commemorare le vittime, e cercare di fare il possibile perché una tale follia non si ripeta, c’è da dire che sarebbe il caso di non parlare più di quel ragazzo di 29 anni, che tanto voleva si parlasse di lui. E dimenticarlo.

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