Ricordo di un viaggio in Bosnia Erzegovina
Nel luglio del 2017, dopo una bella settimana di mare croato, io e la mia compagna visitammo la Bosnia-Erzegovina.
Avevo letto tantissimi romanzi e saggi storici, come faccio sempre quando mi reco all’estero, perché mi piace, adoro, “arrivare” in un luogo prima con le parole di chi lo ha amato, lo ha vissuto, lo conosce, poi col mio corpo. Credo non esista un modo migliore per assaporare la cultura, le abitudini, i tempi, il ritmo di un paese lontano.
Insomma, ero carico di mesi e mesi di letture di autori bosniaci o di romanzi ambientati nei luoghi bellissimi di un paese dilaniato da una delle guerre più atroci e violente del secondo novecento.
Entrammo in Bosnia, un paese sospeso, come assopito, come malmenato. Arrivammo a Mostar, nel pomeriggio dell’11 luglio. Il piccolo centro storico della seconda città della Bosnia era meraviglioso. Acciottolato e orientaleggiante, si apriva sul famigerato ponte, distrutto durante la guerra e poi ricostruito. Il tizio dell’albergo ci disse che quella sera non sarebbe stato possibile cenare nello splendido giardino illuminato da candele e luci soffuse. L’indomani sì. Ma quella sera no. I’m sorry.
Cercammo di capirne il motivo. Pensammo a qualche festa religiosa che ignoravamo, in una parte del paese a forte connotazione musulmana. Lui ci parlò di un lutto nazionale, di una giornata, l’11 luglio, che è diventata simbolo degli orrori della guerra. La ricorrenza del massacro di Srebrenica.
Mi si illuminò il ricordo di tante letture, su tutte “La guerra dei dieci anni”, di Alessandro Marco Magno.
Dopo alcuni giorni di offensiva, la mattina dell’11 luglio del 1995 le truppe dell’Esercito della Repubblica Serba riuscirono a entrare a Srebrenica, città a forte presenza di musulmani, guidate dal generale Ratko Mladić, con l’appoggio del gruppo paramilitare degli “Scorpioni”. Mladić, già noto per le sue riprovevoli azioni durante l’assedio di Sarajevo, separò gli uomini dai 12 ai 77 anni dalle donne, con la scusa di interrogarli, li uccise e li seppellì in fosse comuni. Parliamo di 8372 persone. Tutti musulmani. Di cui 1000 tuttora dispersi. Quel che non si comprende ancora oggi, è come tutto questo sia potuto accadere proprio a Srebrenica, che era stata dichiarata dall’ONU come zona protetta, sotto la giurisdizione del contingente olandese.
Ecco, oggi, Ratko Mladić, braccio destro insanguinato di Radovan Karadžić e catturato nel 2011 dopo 16 anni di latitanza, con accuse di genocidio e crimini contro l’umanità, è stato condannato all’ergastolo, confermando la sentenza del 2017, per 10 degli 11 capi di accusa per cui venne incriminato.
È un bel giorno.
Quella sera, a Mostar, il ponte venne illuminato di verde, col simbolo del fiore di Srebrenica, che ricorda il massacro di quelle vittime innocenti, trucidate e dimenticate. Niente cene all’aperto, niente musica.
Il giorno dopo, a Sarajevo, visitai una mostra fotografica itinerante su Srebrenica. Due foto, su tutte, mi hanno abitato il cuore fino ad oggi e lo faranno per sempre. Nella prima, una donna che continua a catalogare i resti delle persone che vengono ritrovate, ancora oggi, nei boschi attorno alla città bosniaca. Nella seconda, un uomo che li sta cercando ancora, a distanza di più di vent’anni, perché fortunatamente in quei giorni non era a casa e non cadde nella trappola di Mladić.
Oggi è un giorno bello.
Non una consolazione, certo.
