L’ultima lettera dal South Carolina

Cara Valentina,

eccoci qua. Temevo che sarebbe arrivato questo momento, lo temevo fin dall’inizio, eppure provo un’emozione enorme, per niente smorzata dall’attesa. Dovrei avere paura di morire, una paura fottuta, e invece non ce l’ho, non ancora. Dopodomani è il gran giorno, e chiamarlo così mi fa quasi ridere. Un giorno “grande!” perché il mondo si libererà di me, e lo farà senza sentirsi in colpa, nascosto dietro quel vetro sporco che qui da noi chiamano giustizia. Non voglio annoiarti oltre, abbiamo fatto tante volte questi discorsi, non sarà una volta in più a rafforzarci le idee. E poi, non l’abbiamo una volta in più. Domani consegneró questo foglio ingiallito alla segreteria, e quando ti arriverà, tra quattro/cinque giorni come al solito, io sarò morto.
Lo sapevamo. In fondo, lo abbiamo saputo dall’inizio.
Ricordi quella storia del volersi bene senza calendario? Ecco, adesso mi sembra una delle cose più intelligenti che ho capito nella vita. Senza calendario. Che bello, eh! Volersi bene adesso, senza futuri, senza pretese, senza alcuna interferenza. Un bene sincero, senza ragione. Un bene che rompe le righe di un plotone e comincia a correre, libero, per i prati. Non so come sia possibile, ma io ti voglio bene. Non mi importa di essere giudicato per questo. Non mi importa se qualcuno pensa: ma come si fa a voler bene a una sconosciuta? Io non ho più tempo per spiegare a qualcuno che cosa significa conoscersi, che cosa significa sentirsi vicini senza essersi mai incontrati, che cosa significano tutte queste cose qua.
Io l’ho scoperto con te, a quarant’anni passati, per puro caso, scambiandoci queste lettere al ritmo di due tre al mese. In ognuna ci siamo spediti una parte di noi. Come un puzzle reciproco, che lentamente abbiamo composto. Le ho conservate tutte. Le tengo qui, nel cassetto logoro di questa vecchia scrivania. Almeno fino a dopodomani, poi ho chiesto che vengano bruciate, mi è sembrato il modo migliore per portare le tue parole insieme a me.
In questi due anni avrei voluto dirti tanto altro, raccontarti cose di me che non leggerai mai su nessun giornale, in nessun articolo di cronaca. Ma non l’ho fatto. Non so perché. Forse perché, dentro di me, non pensavo veramente che questo giorno sarebbe arrivato. Ci pensavo, ma non ci pensavo veramente. È un po’ come la morte per chiunque. Viviamo come se non dovessimo morire mai, dimentichiamo di abbracciarci, di baciarci, di ascoltarci, di amarci, di rispettarci. C’è sempre tempo per fare, rimediare, ricucire. Poi all’improvviso non ci siamo più. E tutti quei gesti non fatti e quei sentimenti non provati vengono seppelliti con il nostro cadavere. Ma che colpe abbiamo noi? Prima non possiamo saperlo, non è una di quelle cose che si impara.
Nella foto che mi hai inviato con l’ultima lettera finalmente ho visto il tuo viso. Hai quella faccia furbetta che immaginavo, gli occhi belli, mi sembra di averti già vista. Forse in un’altra vita, in un altro tempo, abbiamo vissuto accanto. Magari eravamo fratelli, o amanti, o colleghi di lavoro. Non lo so. Vicini di casa. Può essere no?
E pensare che ci siamo conosciuti per un progetto studio! Che ironia la vita! Io che a scuola nemmeno ci andavo… che poi com’era quella storia? “Imparare l’inglese facendo compagnia ai condannati a morte e agli ergastolani”. Compagnia. Che bella parola. E quanta me ne hai fatta. Non vedevo l’ora che mi arrivassero le tue righe, gli aggiornamenti dei tuoi studi, della tua storia d’amore, della malattia di tua mamma.
Non sono di quelli che dicono che tutto accade per una ragione. Sono molto meno complicato, meno difficile. Credo molto più semplicemente che a volte le cose capitino nel modo giusto, combacino perfettamente. Quel che c’è stato tra noi è qualcosa del genere. Io nemmeno volevo rispondere la prima volta che mi hai scritto. Avevi un inglese ridicolo, e io ero incazzato, e il mio avvocato ripeteva che c’era poco da fare, e avevo freddo, e mi dicevo: ma a che serve scriversi con una che potrebbe essere mia figlia? Non lo sapevo che le parole servivano a questo. Io non avevo mai scritto lettere a nessuno.
Quando abbiamo iniziato, due anni fa, non eravamo certi che mi avrebbero condannato a morte. Certo, era probabile. Ma non ne avevamo certezza. A volte qualcuno si salva con qualche ergastolo. Ed è buffo che uno possa vivere o morire in base a dove commette un crimine. Se quel che ho fatto l’avessi fatto altrove, anche cento chilometri più in là, non mi avrebbero condannato a morte e magari potremmo continuare a scriverci ancora. Ma parlarne adesso non serve a niente.
Qualcuno, qui dentro, si è convertito. Lo vedo raccolto in preghiere silenziose, assorto, convinto, e mi chiedo dove si trova la fede. Come. Forse quando non sai più a cosa aggrapparti guardi in alto e ti aggrappi al cielo, cominci a pregare, chiedi la grazia, il miracolo, l’amnistia. Io non sono così. Ho gli occhi bassi. Guardo la terra, le mie mani, la mia storia. Quel povero agente faceva il suo lavoro per vivere, io il mio. Ed è finita com’è finita. Non volevo ucciderlo, non ho mai ucciso nessuno io. Volevo solo quei soldi, mi servivano. Mi servivano davvero.
Riguardo la tua foto. Oggi ho 47 anni, ma alla tua età ho amato una ragazza come te. Aveva le tue stesse guance. Avrei voluto sposarla, mettere su famiglia, ma a volte la vita ti passa sotto le dita così velocemente che non fai in tempo a prenderla, modellarla. Volevo darle tutto. Volevo che avesse tutto ciò che a me era mancato. Per questo ho iniziato quella vita sbagliata. Volevo darle sempre di più, e alla fine non ho saputo mantenere nulla. Non fare lo stesso errore, Valentina. Non farlo. Tieniti a cuore le cose che ami, non mangiare, non bere, non dormire, ma quello che ami non trascurarlo mai.
Mi piace pensare che, nel 2015, tra mille modi attraverso cui potersi sentire, tra persone libere intendo, noi lo abbiamo fatto per lettera, per tutto questo tempo. Non abbiamo avuto scelta, ma questo ha creato un rapporto di altri tempi. Una cosa non ti ho mai detto. Mia nonna era italiana, di un paesino in Abbruzzo abbarbicato su una montagna di cui mi sfugge il nome, a due passi da Avezzano. Era bello stare lì. Ho bei ricordi del tuo Paese.
Ora devo andare, tra poco passano la cena. E voglio godermela.
Non ho questa presunzione ma, se dovessi per caso pensare a me con tristezza, ti prego di non farlo, di non piangere. Ho superato da tempo il senso di colpa. So di aver sbagliato, so che si sbaglia. Non voglio essere perdonato, per certe cose non si viene perdonati. Voglio solo pagare per le mie colpe, voglio pagare e basta.
Avrei voluto una seconda possibilità. Sono così belle le seconde possibilità se hai compreso il fallimento delle prime. Ma non posso pretenderla. Ed è giusto così. Grazie di tutto.

Ciao, (in italiano nel testo)

Brad

Traduzione dall’americano a cura del sottoscritto.

2 pensieri su “L’ultima lettera dal South Carolina

  1. Carissimo Amico,
    eccoci qui, finalmente ho ricevuto la tua lettera.
    Ormai l’attesa di sentirti fa parte dei miei giorni.
    A mala pena so il tuo nome, ma in fin dei conti che importa che nomi ci hanno dato?
    Ho tentennato all’inizio se iniziare o meno quest’amicizia epistolare, poi mi sono decisa a scriverti, avevo voglia di un amico di dentro.
    Forse sono più amica tua che di tanti altri.
    Arriverà il famoso giorno e non ho parole per questi uomini che si arrogano il diritto di togliere una vita.
    Mi mancherai.
    So che ci mancheremo.
    Ti ho letto nelle rughe di questa vita che forse non hai ben digerito..ma non ti sentir solo, qui è dura per molti.
    Ti saluto su un foglio di carta, ma sai che è molto più di questo.
    A volte mi sono immaginata di incontrarti, di prenderci un caffè, di passeggiare per le strade di questa grande città confusa, di prendere il sole distesi su asciugamani colorati..e che dirti? Forse lo abbiamo fatto, ma si.

    Arriverà quel giorno famoso che dicevi, ma tu continua a scrivermi, invitami ancora al mare, sali per un caffè che poi ci andiamo a godere una camminata insieme.
    Io ti aspetto sempre.

    La tua amica di penna italiana.

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